“Io veggio ben che già mai non si sazia
nostro intelletto, se ‘l ver non lo illustra
di fuor dal qual nessun vero si spazia”.
Dante Alighieri, Paradiso IV, vv. 124-126
Nel primo verso dell’Odissea, l’epiteto che viene attribuito al suo eroe è “πολύτροπος” (“polýtropos“): “dall’ingegno multiforme”, “versatile”. Ulisse è un personaggio unico nella letteratura classica: in lui arde una componente di astuzia sempre pronta a trasmutarsi, senza soluzione di continuità, in acuto desiderio di conoscere. Egli è dunque incarnazione di un innatus cognitionis amor, una delle numerose, iridescenti, sfaccettature proprie della civiltà ellenica, innervata nelle sue fondamenta socio-culturali dai Poemi omerici.
L’Ulisse dantesco, tuttavia, si caratterizza in modo differente. Questo è abbastanza naturale, se si considera che Dante non ebbe modo di leggere direttamente l’Odissea omerica, in un tempo in cui la conoscenza del greco era venuta meno, quantomeno nell’Occidente europeo. Tale lacuna venne confortata, almeno per tutto il Medioevo, dalla mediazione della letteratura latina e, nel nostro caso, Dante aveva potuto apprendere nelle Metamorfosi di Ovidio parte della vicenda dell’eroe. Nel XIV libro del poema ovidiano (vv.154 ss.) l’ultima notizia fornita su Ulisse riguarda la sua partenza da Circe, mentre il suo nuovo viaggio non viene narrato. Precisamente da questo punto prende avvio il racconto dantesco, nel celeberrimo Canto ventiseiesimo (è possibile leggerlo nella sua interezza qui, sulla piattaforma del Dartmouth Dante Project):
Lo maggior corno de la fiamma antica […]
gittò voce di fuori, e disse: “Quando
mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta[…]”.
Inf. XXVI, vv. 85-92.

È interessante notare che, sebbene Ulisse sia collocato assieme a Diomede nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio del mondo infernale per aver perpetrato frodi ai danni dei nemici, non è sul motivo della pena che si concentra la narrazione. Piuttosto, è lo stesso mostrarsi sulla scena da parte dei dannati a lasciar intendere la natura del loro castigo: essi sono avvolti in lingue di fuoco, o meglio sembrano essere essi stessi fiamme (si vedano i vv. 85-89), allusione alle “lingue” che, sottratte al controllo della virtù, vengono impiegate per fini fraudolenti.
In effetti, sembra che al Dante-autore interessi qualcos’altro, come del resto traspare dall’entusiasmo incontenibile del Dante-personaggio:
“S’ei posson dentro da quelle faville
parlar”, diss’io, “maestro, assai ten priego
e ripriego, che ‘l prego vaglia mille,
che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna:
vedi che del desio ver lei mi piego!”
Inf. XXVI, vv. 64-69
Virgilio accoglie favorevolmente la richiesta di Dante, benché nella captatio benevolentiae che rivolge alla fiamma biforcuta sembri in realtà già conoscere la fine della vicenda odissiaca, come parrebbero rivelare i versi che seguono:
“[…] ma l’un di voi dica
dove per lui perduto a morir gissi”.
Inf. XXVI v. 83 s.
Il termine “perduto” è difatti tipico nel lessico della letteratura romanzesca, ed è parafrasabile come “alla ventura”. Naturalmente, se così fosse, sarebbe non già il Virgilio storico, bensì quello dantesco ad essere a conoscenza di questa versione dell’epilogo della vita di Ulisse. L’Alighieri, come già detto, ignorava i Poemi omerici e quasi sicuramente anche i tardivi riassunti di quelli, secondo i quali Ulisse avrebbe fatto ritorno ad Itaca; doveva essere pure all’oscuro della versione afferente al leggendario cronista Ditti Cretese, che lo vorrebbe morto per mano di Telegono. Questo non è da intendersi affatto come un limite; anzi, indipendentemente dal fatto che Dante dovesse o meno essere a conoscenza dell’esistenza di più versioni circa la morte dell’eroe omerico, quella che egli mette in scena – per scelta o necessità – rivela squarci di inaspettata profondità, come vedremo fra un momento, che fanno del Canto ventiseiesimo uno dei più felici dell’intera Commedia: è la più grande emulazione che il poeta toscano tributi al mondo antico, scrivendo, in un certo senso, la propria Odissea.

A questo punto, potremmo interrogarci ancora per un momento sulla forma evanescente attribuita a Odisseo e Diomede, la fiamma: certo, il fuoco è la pena infernale per eccellenza, ma forse anche emblema del desiderio intellettuale, inteso come “irresistibile moto verso l’alto”, per citare G. Inglese. A pervadere Odisseo è un insopprimibile istinto connaturato all’uomo, come dimostra di sapere Dante nel Convivio:
Sì come dice lo Filosofo [Aristotele] … tutti li uomini naturalmente desiderano sapere.
Conv., I, i
Questo lo induce ad anteporre i vincoli familiari (che sia, da parte di Dante, una vibrante eco autobiografica? Dopotutto, sempre nel Convivio, è evidenziato il confligere di “cura familiare e civile”, che doveva toccarlo in modo particolare) all’ardore
“…ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore”.
Inf. XXVI VV. 98 s.
E allora, la notissima orazione rivolta ai compagni:
“…Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.
Inf. XXVI, vv. 118-120
altro non è che una summa di sapienza ellenica. La felicità suprema è dunque conseguibile esclusivamente tramite una suprema consapevolezza.
Ed eccoci giunti al nodo centrale della questione: la Verità è pienamente conseguibile? In altre parole, qual è il moto psicologico che si “innesca” in Ulisse, nel momento in cui perviene sulla soglia delle Colonne d’Ercole? Egli si rende conto che la sua sete conoscitiva non è affatto saziata; tutto ciò che gli resta da esplorare è uno spazio vuoto, per così dire, il “mondo sanza gente”. La condizione di Ulisse è la medesima di ogni uomo che ragionando giunge talmente in profondità da trovarsi al limite del non conoscibile, sulla soglia dell’infinito, potremmo dire. Il suo volo è folle perché, pur virando verso una rotta “giusta”, qual è il monte dell’Eden, essa non è percorribile da mezzi umani. E se Dante, da Cristiano, possiede la certezza che la Verità gli verrà rivelata dalla visione beatifica, e può dunque nutrire una speranza in tal senso, Ulisse non può far altro che navigare di notte, alla luce lunare – significativa immagine dell’intelletto umano, illuminato soltanto di riflesso dalla Grazia divina – senza poter neppure comprendere che il monte scorto è quello dell’Eden, tanto è vero che la gratificazione della sua scoperta è del tutto momentanea:
“…Noi ci allegrammo, e tosto tornò [si mutò] in pianto;
che dela nova terra un turbo nacque […]
infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso”.
Inf. XXVI, 136-142

A Ulisse e i suoi compagni è preclusa la possibilità di una conoscenza piena e definitiva, ed è significativo notare che egli stesso sembri quasi intuire, pur vagamente, la presenza di una necessità a sovrastare la loro impresa (“com’altrui piacque”, v.141).
L’atto di Ulisse sarebbe dunque punito in quanto teso a trasgredire consapevolmente un limite posto, se non dal Dio cristiano, dalla natura stessa, o dai propri dèi, quantomeno secondo la più nota linea interpretativa. Tuttavia, la visione che vorremmo offrirne noi in questa sede è in sintonia con la tesi di altri studiosi (tra cui Gennaro Sasso, il quale la espone brevemente in questo video).
A suffragarla sarebbe innanzitutto un dettaglio fornito da Ulisse, di natura geografica, colto da alcuni studiosi:
“...da la man destra mi lasciai Sibilia”.
Inf. XXVI, v. 110
Dal momento che Siviglia si trova più ad ovest di Gibilterra, Ulisse si troverebbe già al di là delle colonne di Ercole e così pronuncerebbe il discorso esortativo ai compagni proprio in virtù del fatto che l’oggetto gli sembra conoscibile, l’ignoto gli si offre in maniera evidente davanti agli occhi.
Non solo. Come osserva Auerbach:
Ciò che realmente viene mostrato nel loro [di personaggi come Ulisse] atteggiamento eterno è la concordanza delle loro disposizioni decisive con il corso provvidenziale del mondo in cui essi agirono così e non altrimenti. […] l’audacia non ha valore autonomo, la persona umana trova la sua misura non in se stessa, ma nella sorte che giudica rettamente.
E. Auerbach, Dante, poeta del mondo terreno, La rappresentazione
Non tracotanza, non sfida: Ulisse si trova nell’impossibilità di trasgredire il divieto di far ritorno all’Eden, semplicemente non può. È fatalmente destinato al naufragio, al fallimento. La limitatezza del suo orizzonte sembra trasparire dal suo ricondurre la nuova esplorazione alla sola esperienza (“non vogliate negar l’esperienza”, v. 116). E l’orazione ai compagni non è l’ennesima frode prodotta da un ingegno perverso, bensì espressione di questa fatalità, insita nel “disio” di conoscere il divino. Come ben osserva Dante nella terzina del Paradiso citata in apertura, se è vero che la “semenza” umana si esplica nel compimento delle potenzialità intellettuali, la sua piena attuazione è possibile solo oltrepassando i limiti della vita terrena.
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