Come in una spirale: la musica di Béla Bartók

Per quanti conoscevano Béla Bartók, non sarebbe stato insolito vederlo intento nell’atto di separare le parti di una pigna ed esaminare attentamente ognuna di esse, tanto la sua sensibilità era attratta dall’intimo fascino della natura. Certo, questo è soltanto un aneddoto, ma coglie in modo suggestivo un tratto dell’indole compositiva del Maestro ungherese, e una tendenza della sua musica: il costante protendersi verso un ritorno al principio, inteso come recupero dell’autenticità, in tutte le sue accezioni. Certo, egli lo realizza attraverso un ritorno al mondo primigenio e spontaneo dell’infanzia, nelle opere dedicate ai più giovani, e anche facendo ritorno al cuore del folklore, la campagna, per farne il punto di partenza del proprio percorso compositivo. Ma dobbiamo intendere tale ritorno al principio in termini ancora più profondi. Infatti, lungo il sentiero che va modellando per sé, Bartók saprà raccogliere quanto ritiene degli innumerevoli stimoli che riceve dalla musica colta e popolare, ma in definitiva perseguirà una ricerca tutta personale, all’insegna del recupero della dimensione naturale della musica. Come? Carpendo il senso più profondo delle leggi matematiche sottese alla natura stessa, che tanto attraevano il suo interesse, a partire dalla sezione aurea, principio affascinante che in un certo senso schiude l’infinito all’interno del finito. Ma per saggiare tutto questo, sarà meglio addentrarci nei meandri di un capolavoro bartókiano: la Musica per archi, percussioni e celesta, perfetto esempio di questa musica in grado di avvolgerci in un’ipnotica spirale.

Il vocabolario compositivo bartókiano

Bartók era nato nel 1881 a Nagyszentmiklós, una terra di confine, che dovette arricchire di stimoli una mente di per sé curiosa e aperta: egli si interessò non solo del folklore ungherese, ma anche di quello slovacco, rumeno, e bulgaro. Così, con l’amico Zoltán Kodály, si avventurò nelle campagne magiare spinto dal desiderio di catturare quanto di più evanescente e impalpabile vi è forse nelle tradizioni di un popolo: i suoi canti, il suo ritmo, le sue movenze scevre da sistematizzazioni tonali, che esistevano nell’unico momento dell’esecuzione. Insieme, catalogarono oltre settemila melodie popolari.

Si trattava di un linguaggio a sé, che si esprimeva con la morfologia delle scale pentatonica, esatonale, araba, ottatonica, o della modalità, e che si avvaleva di una sintassi fatta di combinazioni ritmiche asimmetriche. La voce autoctona delle sue campagne gli mostrò come la dissonanza potesse rivendicare uno statuto autonomo e quanto molteplici fossero le possibilità offerte da un incedere ritmico non convenzionale. Tutti questi elementi sono senz’altro presenti nella Musica per archi, percussioni e celesta, coniugati all’influenza di Beethoven, di Debussy, e della Scuola viennese (dalle cui sperimentazioni dodecafoniche Bartók trasse una maggiore tensione cromatica).

Bartók ebbe la capacità di captare sensibilmente un simile ventaglio di spunti, sapendo sintetizzarli con notevoli elementi di originalità. Esemplare, in tal senso, è il suo “sistema assiale”, che ci permette di cogliere un principio fondamentale per il maestro ungherese: la simmetria, legata all’attenzione per le proporzioni, che permea la sua musica a tutti i livelli, come vedremo.

Desumendo dal circolo delle quinte tre assi geometrici, quello di tonica, quello di sottodominante e quello di dominante, ognuno dotato quattro epicentri, si viene a creare una dialettica incentrata sulla tensione polo/contro-polo (ad esempio nell’asse di tonica, l’opposizione si ha tra il do e il fa♯, e tra il mi♭ e il la). In questo modo, l’ottava è simmetricamente divisa in quattro porzioni simmetriche, dettate dalle quattro note di riferimento di ciascun asse (considerando sempre l’asse di tonica avremo: do mi♭- fa♯-la).

Questo sistema offre al compositore la possibilità di esplorare una molteplicità di soluzioni inedite, ed è alla base del brano che stiamo per analizzare.

Auscultando la voce silenziosa della natura

La Musica per archi, percussioni e celesta fu eseguita per la prima volta a Basel il 21 gennaio 1937. Si tratta di un’opera estremamente sperimentale: potrebbe non catturare al primo ascolto, ma merita davvero di essere riascoltata e assimilata con il tempo, perché è davvero affascinante. In essa, Bartók si avventura alla ricerca di una voce astratta, tentando di auscultare il respiro tutto intimo della natura: indagando le sue logiche, sondando le sue leggi di natura matematica, tenta di farlo affiorare.

Da un punto di vista macroscopico, il principio di simmetria è visibile in tutta la sua immediatezza fin dalla disposizione stereofonica dell’orchestra, una scelta che è senz’altro di grande impatto per il pubblico, e che rivela una profonda ricerca acustica. In partitura, infatti, gli strumenti sono raggruppati secondo questo schema:

E poi, Bartók ha cura di indicare minuziosamente la durata di ciascun movimento, evidentemente prefigurando un’architettura intessuta di precise proporzioni d’insieme.

Il seguente video vi permetterà di seguire con la partitura, ma se preferite in fondo troverete una registrazione dal vivo del brano.

Nel Primo movimento, Andante tranquillo, la musica prende avvio da una sottile linea melodica, che è affidata alle prime e seconde viole, nell’ambito del pianissimo, enfatuzzato dall’uso della sordina.  È questo il tema principale su cui fa perno l’intera composizione, e in esso si ravvisano quattro frasi, chiaramente evidenziate dalle pause di croma. La linea melodica inizia dalla nota la, procede in modo quasi strisciante, con andamento cromatico, espandendosi per piccoli intervalli, culmina sulla nota di mi♭, si spinge fino al mi naturale per poi ripiegarsi immediatamente su se stessa, e infine conclude il suo arco nuovamente sulla nota la.

Il soggetto esposto dalle viole.

Il tessuto sonoro si ispessisce via via che il soggetto viene riproposto nelle successive risposte, e notiamo come l’imitazione venga collocata a precisi intervalli di distanza, come esplica il seguente schema:

In questa scelta è implicito anche il perseguimento del principio di simmetria. Dunque, il punto di riferimento del compositore è, ancora una volta, il circolo delle quinte, ed è proprio l’intervallo di quinta il baricentro attorno a cui orbita la musica. Segue un momento di sospensione, quindi, a partire dalla misura n. 27, i violini e i bassi dialogano nella forma di un canone (il brano ne contiene moltissimi), che avviluppa l’ascoltatore in una sempre più invincibile spirale sonora. Alla battuta n. 34, gli archi iniziano a togliere la sordina, simultaneamente all’ingresso quasi impercettibile dei timpani, preparando così una graduale ma inesorabile crescita dinamica. Un primo punto culminante coincide con l’ingresso dei piatti alla misura n. 51, ma la climax si protrae sino alla scala ascendente che tocca infine il mi♭ in fff, alla battuta n. 56.

E ora che si è toccato il punto di massima tensione, che si è saliti tanto in alto, gli intervalli si fanno più ampi, sembrano quasi creare dei vuoti d’aria, con un senso di ripida scivolata potenziato dai glissando: è l’inizio della discesa, del ripiegamento della musica su se stessa, e l’andamento si fa retrogrado: ancora una volta, la simmetria, che presenta il brano quasi come due parti che si specchiano l’una nell’altra. Ma resta un ultimo coup de théâtre: l’ingresso della celesta, nel cui andamento ipnotico si insinua un’ulteriore riesposizione del tema, questa volta simultaneamente nella forma diretta e inversa, quasi a simboleggiare l’unione di un’immagine e del suo riflesso.

Nella Coda, l’ultimo stretto a canone propone la prima frase del soggetto per moto retto, subito imitata per via retrograda, poi, quasi a mimare un’eco, vengono imitati frammenti sempre più ridotti del soggetto; da ultimo, la seconda frase del soggetto proposta simultaneamente per moto retto e retrogrado fissa il nodo del filo intrecciato finora, come a fornire un’estrema sintesi di quanto detto.

Ora, alle fondamenta di questo brano, e in particolare del suo Primo movimento, così organicamente costruito, curato nel suo complesso così come nei suoi minimi dettagli, è stata ravvisata la presenza di un principio formale che ha suggestionato compositori antichi e moderni: la sezione aurea, che è espressione di una proporzione irrazionale in virtù della quale il tutto sta alla parte come la parte sta al rimanente e a cui è associato il celebre numero Φ, dal valore approssimabile a 1,618. Da sempre il raccordo tra opera della natura e opera dell’uomo basti soltanto pensare a un comunissimo girasole o a una conchiglia, oppure agli strumenti a corda costruiti da Stradivari , la sezione aurea è strettamente connessa alla Serie di Fibonacci, in cui ogni termine è la somma dei due precedenti: infatti, il limite dei quozienti dei termini della progressione geometrica di Fibonacci è proprio Φ.

  Tutti questi aspetti hanno suscitato la viva attenzione del musicologo Ernő Lendvai, che ha osservato come, in particolare nel Primo movimento della Musica per archi, percussioni e celesta, le due sezioni l’una di crescita e intensificazione, l’altra di distensione e ripiegamento corrispondessero alle due parti del segmento aureo. Come si osserva dal seguente grafico, ogni momento saliente del brano sembra corrispondere a una battuta numerata secondo la sequenza di Fibonacci.

Così, la battuta n. 21 contrassegna il termine dell’esposizione del soggetto; dopo la battuta n. 55, si giunge al momento di massima tensione, con l’unico fff del movimento; alla misura n. 68, invece, si registra nuovamente l’indicazione con sordina, a decretare l’inizio del ripiegamento, e così via. Un Adagio, insomma, davvero ricco di elementi sperimentali e in cui è concentrato in nuce il materiale tematico che verrà riecheggiato per tutto il brano.

Anzi, possiamo notare come tutti i movimenti siano costruiti in modo che sia presente un culmine con la funzione di spartiacque:

L’Allegro del Secondo movimento valorizza al massimo grado la dialettica stereofonica dell’orchestra, per cui i due gruppi dialogano a distanza di due battute l’uno dall’altro. Il tema presenta un andamento affine a quello del Primo movimento, nel suo salire e poi discendere, ma in un certo senso si espande attraverso intervalli più ampi. Anche il carattere di questo movimento è complessivamente più vivace, tanto da erodere la patina di mistero che ammantava il Primo movimento.

Molto più vario rispetto ai precedenti, il Terzo movimento, un Adagio, è animato da atmosfere oniriche, con i suoi glissando e i suoi tremoli dal sapore magico, e il riproporsi quasi inquietante di frammenti di tema del Primo movimento. È qui che si rinviene la ricerca timbrica in tutta la sua profondità, ancor più che negli altri movimenti, finalizzata all’evocazione delle voci silenziose sommerse nelle brume notturne. All’inizio c’è il solo xilofono che, con i suoi ticchettii della consistenza di gocce d’acqua, sembra quasi enunciare musicalmente la Serie di Fibonacci. Saranno proprio i rintocchi dello xilofono a chiudono il movimento, ancora una volta all’insegna della più rigorosa simmetria.

In effetti, in questo caso la simmetria è visibile nella forma stessa del movimento, definita da alcuni “struttura ad arco”, in quanto composta di sei episodi protesi verso un baricentro centrale, anche in questo caso consistente in una climax (batt. 46). La struttura è così schematizzabile:

ABC D CBA

Ognuna di queste sezioni vede la rievocazione delle quattro frasi del tema del Primo movimento, separatamente, come se in questa sede rivelassero di essere ognuna in grado di sprigionare delle potenzialità ancora inespresse nel precedente movimento. Degno di nota è anche il fatto che le sezioni B e C (batt. 35 e ss.) mostrino profonde affinità con un episodio di collegamento tra il Secondo e il Terzo movimento de La Mer (1903-1905), anch’esso costruito sulla base di accurate proporzioni da un compositore, Debussy, che amava moltissimo riprodurre la sezione aurea nelle sue opere (un esempio? Ascoltate Jardins sous la pluie!); ciò testimonia quanto Bartók avesse assorbito le movenze e le idee del compositore francese; proprio per accostarla a quella sezione de La Mer, Lendvai definisce suggestivamente questa parte “the roaring of the wind”. E dunque, se la celebre onda di Hokusai era per Debussy evocativa del suo brano, a questa musica ipnotica di Bartók noi potremmo associare il vortice di Hiroshige.

In questo movimento, come efficacemente mostrato dall’illustrazione sottostante, è qui presente un’interessante nesso con la spirale logaritmica, tipica degli elementi naturali costruiti sulla base di proporzioni auree.

Tratto da “Bartók, Lendvai and the Principles of Proportional Analysis” (Howat, 1983).

Il Quarto movimento, Allegro molto, conclude l’opera all’insegna di una sfrenata danza magiara. Brillante, sia ritmicamente che timbricamente, vede come protagonisti assoluti gli archi. Troviamo qui un tema del tutto indipendente da quello del Primo movimento, consistente in una scala dal ritmo bulgaro, che sovrappone combinazioni ritmiche differenti: i terzi e quarti violini seguono lo schema 2 + 3 + 3 insieme alle seconde viole; l’altro gruppo di archi, cui è affidata l’armonia, esegue il ritmo 3 + 3 +2. Così, uno spunto tratto dal folklore diviene il motore di un brano di effervescente vitalità. A questo tema di grande originalità, è affiancato nuovamente il tema del Primo movimento, trasformato poliedricamente all’interno di una danza frenetica, fino a quando viene riproposto per l’ultima volta (batt. 203 e ss.) su un luminescente tappeto armonico (batt. 210 e ss.) che sembra per la prima volta aprire uno spiraglio luminoso, e squarciare definitivamente il velo di mistero che pervadeva il Primo movimento.

È questa un’opera che, a qualunque grado di profondità la si osservi, rivela una struttura compiutamente articolata e proporzionata. Scomponendola e analizzandola, proprio come Bartók amava dividere in parti le pigne, si rimane stupiti di come questa musica spiraliforme si dipani lungo un vortice, come fosse un frattale: dilatando o contraendo le sue dimensioni, si presenta sempre uguale a se stessa; sembra proprio appartenerle quella costanza nelle proporzioni, da qualunque scala la si osservi, proprietà che in matematica è denominata autosomiglianza. Ed è tanto più straordinario che Bartók riesca a insinuare nell’intelaiatura rigorosa della proporzione e dell’esattezza scorci di infinito.

“Bello perché vero”

Il rigore e la complessità della musica di Bartók furono spesso fraintesi, e tacciati di eccessiva cerebralità. Forse anche per tenersi al riparo da tali critiche, non dichiarò mai una precisa dipendenza da principi matematici, anzi, in un discorso tenuto ad Harvard nel 1943 disse:

“The plans were concerned with the spirit of the new work […], all more or less instinctively felt, but I never was concerned with general theories to be applied to the work I was going to write.”

Questa appare però soprattutto una dichiarazione di assoluta indipendenza da qualsivoglia schematismo, e al contempo delle più ampie vedute in ambito compositivo. È proprio per questo che le lievi sfasature rispetto ai valori esatti della sezione aurea che sono state ravvisate da alcuni non sembrano tanto significative da poter decretare l’assenza assoluta di principi aurei nei componimenti bartókiani, come la Musica per archi, percussioni e celesta. La musica non è mai stata intesa dal Maestro ungherese come frutto di uno sterile calcolo, ma sempre come poetica e libera trasfigurazione di principi geometrici. Dunque, nel momento in cui si evidenziano principi aurei, questi non vanno necessariamente collegati a un’esplicita intenzionalità nell’atto compositivo, ma possono essere intesi, più profondamente, come connaturati alla sua indole e motivati da un profondo interesse per la natura e la sua estetica.     

L’impegno profuso da Bartók nella sua ricerca di “architetture della simmetria” che potessero accogliere un mondo infinito all’interno di una partitura finita fu ammirevole: egli ebbe il coraggio di perseverare lungo il suo sentiero senza temere di ricevere una fredda accoglienza da parte del pubblico. Fu un compositore unico nel suo genere, sempre proteso a captare stimoli della più varia provenienza. Ecco dunque, in definitiva, il fine ultimo del suo ritorno al principio, del suo incamminarsi lungo il sentiero della naturalità: “bello perché vero”, quel principio che Lajos Hernandi gli attribuiva come pianista e che credo possa descrivere alla perfezione anche il Bartók compositore. La sua è tutt’altro che una musica cerebrale; piuttosto, è una musica in viscerale sintonia con la natura, e come la natura dotata di una propria rara bellezza interiore.