Alla galleria dell’infinito – piano secondo: dall’Impressionismo al Surrealismo

L’individuo può pensare al finito con coerenza e metodo, ma, avventurandosi nell’idea della serie infinita di tutti gli esseri finiti, il pensiero cade in preda a dubbi e contraddizioni.

Immanuel Kant, “Critica della ragion pura”

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento la rappresentazione della realtà venne radicalmente rinnovata. Gli Impressionisti filtravano gli istanti, colti in un batter di ciglia, per così dire, attraverso la propria soggettiva coscienza. E in seguito, i Postimpressionisti avrebbero considerato l’espressività del tutto prioritaria rispetto ad uno sterile verismo, lasciando così un’eredità ben longeva all’arte successiva.

Sala V: Le impressioni istantanee di Monet

Due figure passeggiano sull’orlo di una scogliera. Pennellate onomatopeiche imitano il rumore del mare e il soffio del vento che si insinua tra i fili d’erba, tra le pieghe dei loro vestiti. Ecco, il profilo delle scogliere di Monet non è mai lineare, ma traccia sempre aperture e chiusure. Per un attimo lascia che la profondità dell’orizzonte giunga sino a noi, e subito dopo lo sottrae alla nostra vista, ricucendo per un istante soltanto la distanza tra finito e infinito. Quello che Monet riesce a comunicare in Passeggiata sulla scogliera (immagine n.1), riassume forse alla perfezione la poetica impressionista.

E sempre gli Impressionisti maturarono l’idea che tutto quello che i nostri occhi percepiscono viene riverberato al di là del nostro campo visivo, all’infinito (questo è esemplificato molto chiaramente nelle immagini n. 1, 6, 7, 10 e 11). Perciò assistiamo ad un disuso della prospettiva geometrica, il reticolo prospettico sarebbe un limite intollerabile. Luce e colore, invece, plasmano i volumi e costituiscono l’ossatura della tela: è questo che conferisce all’arte impressionista una freschezza ed una vitalità uniche nel loro genere. Quello che conta, dunque, è l'”impressione” che si riceve da un determinato stimolo esterno, ed essa non può essere imbrigliata, dal momento che si estende chiaramente al di là dei limiti fisici di un dipinto.

Monet è senz’altro uno dei pittori più rappresentativi dell’Impressionismo, e nel suo approccio piuttosto analitico (a differenza, ad esempio di Renoir o, in parte, Pissarro, dall’approccio più sintetico e costruttivo). Tra tutti, è colui che portò avanti questa visione del mondo e la sua traduzione in arte per un lungo arco di tempo, fino alla sua morte, avvenuta nel 1926. Ed è interessante notare gli sviluppi del suo stile, sempre più incline, verso l’epilogo della sua parabola artistica, ad una rappresentazione quasi irriconoscibile della realtà (basti pensare alle sue numerosissime Ninfee).

In “Impression, soleil levant”, del 1872 (5a immagine) le immagini sono scorporate in una varietà multiforme di colori, stesi a rapide pennellate. Non vi è la benché minima traccia di contorni, per cui, a meno che non si guardi da una certa distanza, il dipinto potrebbe apparire approssimativo. Infatti, è allontanandosi che le macchie di colore cominciano ad emergere, e a prendere vita, pulsanti. Tutto è palpabile: le onde del mare, l’aria stessa. Insomma, larga parte è lasciata all’occhio, cui il pennello dell’artista deve soltanto fornire degli accenni, degli spunti. I colori sono frazionati in infiniti tratti, tocchi, o virgole, giustapposte. Il vero soggetto non è il sole nascente, ma l’impressione dello stesso.

Particolarmente significativo è il Sentiero delle rose (immagine n. 11). Cosa è davvero riconoscibile di quel sentiero? La scena appare trasfigurata in una singola, fugace suggestione. L’occhio è abilmente guidato dalle pennellate vorticose del pittore a ricercare la fine del sentiero, salvo però non riuscire a trovarla…

Sala VI: L’infinito dorato di Van Gogh

Sto dipingendo l’infinito!

Vincent Van Gogh

Così esclamava Van Gogh, nella potente gioia di dipingere la campagna francese, e non a caso si trattò di uno dei periodi più fecondi della sua carriera artistica. Lo vediamo nelle tele dai colori pastosi, intensi, vividi, nelle pennellate che sembrano insinuarsi in ogni ente materiale e vitalizzarlo (da notare che le pennellate assecondano sempre il disegno, contrariamente a quanto avveniva in Cézanne, che invece lo contrastava).

In molte di queste tele si riscontra un inconfondibile connubio cromatico, quello del blu e del giallo, variamente adoperati a rendere differenti stati d’animo, tutti intensissimi. Il giallo è il colore della pienezza vitale, che viene sublimato in un sole come quello de “Il Seminatore”, in cui sarebbe più proprio, anzi, definirlo come oro. Quella profusione di luminosità abbagliante non è altro che un abbraccio all’infinito di cui è pregna la natura. Dopotutto il colore oro è rappresentativo come nessun altro di un principio divino che permea di sé la natura (forse ad alcuni verranno in mente i “Golden daffodils” di Wordsworth). In altri quadri v’è invece (immagini n.1,2,5,6, 7) un maggiore bilanciamento di tale accompagnamento coloristico, è infatti assai presente anche la nota del cobalto, che connota l’atmosfera con il suo carattere pacato. Nell’opera “Campo di grano con volo di corvi” (immagine n.8) questi colori appaiono depotenziati, spenti, privi di scintilla vitale: la scena è gravida di presagio, dovuto anche al frenetico volo dei corvi, le pennellate sono aguzze, quasi rabbiose – non per nulla la tela è stata definita da Francesco Morante “la più grande sinfonia coloristica mai realizzata sul dolore di vivere”. La scena è ampia (Van Gogh stesso parla di “immense distese di grano”), e allo stesso tempo semplice. Inevitabile constatare il senso di desolazione e solitudine che ci viene comunicato. I tre sentieri che si aprono a ventaglio sfuggono dal nostro occhio, in particolare quello di fronte allo spettatore viene inghiottito nel mare di grano (cosa che sembra avvenire anche ai due che passeggiano nel bosco, in perfetta armonia con la natura, nell’immagine n.6), mentre il cielo minaccia una burrasca.

Questo quanto il pittore scrive a proposito di “Campo di grano con volo di corvi”:

Ci sono campi di grano che si estendono all’infinito sotto un cielo cupo e non ho paventato il tentativo di rappresentare tristezza ed estrema solitudine […] sono quasi convinto che queste immagini vi parlano di cose che non posso esprimere in parole, e cioè della salute e della vitalità che io scopro nella vita di campagna.

Non solo menziona l’immensità di questi campi, ma parla della natura in generale come qualcosa di ineffabile. Soltanto attraverso la pittura è in grado di comunicare questa infinita vitalità di cui la natura tutta pulsa.

Questo si può riscontrare, ancora, in dipinti come “Notte stellata sul Rodano” (immagine n.9), o “Notte stellata” (immagine n.10), in cui, se si vuole, a dominare è il tono cupo del blu, e soltanto alle stelle che è affidato quel principio vitale. Il loro giallo peraltro si conserva vitale, benché sia quantitativamente meno presente nella tela.

Guardare le stelle mi fa sempre sognare, così come lo fanno i puntini neri che rappresentano le città e i villaggi su una cartina. Perché, mi chiedo, i puntini luminosi del cielo non possono essere accessibili come quelli sulla cartina della Francia?

Van Gogh osserva quelle lucine inarrivabili dalla clinica in cui è ricoverato, si tratta di uno dei periodi più cupi e tormentati della sua esistenza, e il ritratto della scena che ci fornisce appare quasi allucinato, colmo di quel turbamento psichico che egli stesso prova. E forse quel senso di inaccessibilità, di reclusione che lo tiene a distanza dall’infinito, dalla libertà della sua amata campagna, è reso anche ne “Il giardino dell’ospedale di Sain-Paul” (immagine n.11), in cui è rappresentata la barriera di un muretto, che rende irraggiungibile quel cielo amaranto.

Sala VII: Le visioni folgoranti di Munch

Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto a una palizzata. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura… E sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura.

Evdard Munch

Questa l’esperienza di acuta ansia provata da Munch, che trasferirà poi nell’iconica opera “L’urlo”. Le opere che proponiamo, forse meno accese nei toni, non mancano di comunicare quell’urlo, magari momentaneamente quiescente, che pervade la natura, e soprattutto il suo fascino magnetico, che traspare in modo lampante nei notturni (immagini n.2-4). La natura è lo specchio della sconfinata sofferenza umana, senza posa, senza un fondo. Anche il Sole (immagine n.1) non trasmette un senso di entusiasmo, di positività, come lo era ne “Il Seminatore” di Van Gogh, ha un che di lancinante, di acuto, come se ferisse gli occhi.

Sala VIII: Il blu infinito di Kandinskij

Per Kandinskij il silenzio, il vuoto, trasmettono un senso di atemporalità, e dunque di eternità ed infinità. Presentiamo opere di varia datazione, due delle quali (la 2a e 3a immagine) conservano un carattere figurativo, a mostrare come il pittore riesca a conseguire un simile risultato sia nell’ambito dell’astrattismo assoluto che attraverso la raffigurazione, rielaborata in modo originale e personalissimo, di immagini identificabili.

Davvero significative sono le parole di Kandinskij stesso, ne “Lo spirituale nell’arte”:

La profondità la troviamo nel blu, […], se lo lasciamo agire, in qualsiasi forma geometrica, su di noi. La vocazione del blu alla profondità è così forte, che proprio nelle gradazioni più profonde diviene più intensa e intima. Più il blu è profondo e più richiama l’idea di infinito, suscitando la nostalgia della purezza e del soprannaturale. E’ il colore del cielo, come appunto ce lo immaginiamo quando sentiamo la parola “cielo”.

Il blu è il colore tipico del cielo. Se è molto scuro da un’idea di quiete. Se precipita nel nero acquista una nota di tristezza struggente, affonda in una drammaticità che non ha e non avrà mai fine.

Sala IX: “Le ebbrezze dei bagni d’azzurro” di Joan Miró

Con Miró inauguriamo il movimento surrealista, di cui fu uno dei massimi interpreti. In particolare nelle opere proposte, Joan Miró ha saputo focalizzare l’intensità emotiva della tela su un unico colore: il blu. Non si tratta di un blu oscuro, sotterraneo, alla stregua di quello di Kandinskij, è un blu più pacato, più tendente all’azzurro, ma non meno profondo. La sensazione più immediata che si può sperimentare è quella di una pace primigenia, che porta il desiderio di immergersi in acque così di un perennemente silenziose, di fondersi con un Tutto indistinto, e fare parte di quell’infinito (era Emilio Praga che nel componimento “Preludio” adottava un’immagine così evocativa: “Canto le ebbrezze dei bagni d’azzurro”).

La presenza quasi esclusiva di questo colore è stata giustificata dal pittore come una proiezione del proprio subconscio, per cui le pennellate rosse, nere, o eventualmente bianche che interrompono tale “continuo blu” sono dovute alla tecnica dell’automatismo psichico. Si noti peraltro come a una datazione posteriore, nella 2a e 3a tela, corrisponda una maggiore essenzialità, e una scomparsa dal festoso assembrarsi di linee e forme. Dopotutto le teorie cromoterapeutiche confermano la proprietà rilassante del blu. Eppure esso assume una valenza assai personale per Miró, una presenza costante nel momento in cui intende evocare la dimensione onirica e le forze sotterranee, oscure, prive di confine, dell’inconscio.

Sala X: La prospettiva paranoica di Magritte

René Magritte, altro esponente del Surrealismo, fu un artista che più di altri aveva compreso l’importanza di andare oltre il reale, il verosimile, anche a costo di destabilizzare lo spettatore, urtandolo, attraverso i suoi paradossi. In fondo la vita è dominata dalle contraddizioni. In Magritte, in ogni caso, è presente un certo desiderio di sovvertimento delle regole prestabilite (la realtà non è sempre come sembra o come vogliono farci credere che sia; pensiamo soltanto a “Questa non è una pipa”). Insomma, dietro una rappresentazione così chiara della realtà si cela in realtà una verità più ambigua e criptica, tutta da scoprire.

La condizione da cui Magritte vuole scuoterci è quella dell’omologazione. Quella replicazione infinita di uomini (in “Golconda”, immagine n.1) è volta precisamente a indurre lo spettatore a domandarsi dove questi stiano andando, se siano destinati a stazionare a mezz’aria, nella mediocrità. Si tratta di una scena inquietante e paranoica, che ci induce a domandarci se anche noi intendiamo conformarci a quella massa infinita di uomini indistinti ed inoriginali.

Di replicazione, o forse di mancata replicazione, si può parlare anche nel caso dell’immagine n.2. Il soggetto ritratto è Edward James, poeta inglese sostenitore del Surrealismo. Il paradosso sta nel fatto che James non si specchia, infatti è visibile la sua nuca. Per cui tutto ciò che vediamo, appare duplicato. L’unica oggetto riflesso è un libro, “Le avventure di Gordon Pym” di Poe.

In “Decalcomania” (immagine n.3), sembra invece possibile scorgere qualcosa di differente. Il fatto che la sagoma del personaggio lasci scorgere, sulla destra, il cielo, sembra quasi volerci mostrare, in modo molto comunicativo, i contorni finiti di quello che rimane un individuo. Il cielo, piuttosto, è incommensurabile rispetto ad esso. Ed è quanto, se vogliamo, può letteralmente apparire ai nostri occhi, come testimonia l’immagine n.4. E poi…è davvero il cielo, o l’iride ci inganna, mostrandoci quello che crediamo di vedere?

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