Libri all’infinito: L’INFINITO IN LETTERATURA

L’infinito è un concetto così affascinante che anche la letteratura consta di straordinarie interpretazioni della sua natura.

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Tra i maggiori interpreti dell’infinito in letteratura troviamo senz’altro Leopardi, con il suo componimento “L’infinito”, forse la lirica divenuta più emblematica della sua poetica. Molti altri però hanno espresso la propria peculiare visione in merito.

VITTORIO ALFIERI (1749-1803):

Alfieri rappresenta forse la rappresentazione più paradigmatica dell’eroe preromantico,

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“Viandante”, Carlo Domenici, 1925 c.a.

del viandante (se si desidera approfondire il movimento romantico, a cui furono cari temi come il sentimento, l’arte, e l’infinito, si consiglia questa spiegazione del professor Matteo Saudino). Il viandante è colui che, secondo la concezione romantica, non ha una propria identità, colui che intraprende coraggiosamente lunghi viaggi, che sono poi una ricerca di se stessi, sfidando i limiti della realtà: vuole scoprire cosa c’è oltre la realtà, e vuole dunque valicare l’ostacolo che lo separa da quel mondo ignoto e affascinante, insoddisfatto dalla quotidianità e nel rifiuto di un universo limitato. Se in Leopardi l’ostacolo è la siepe, in Alfieri esso è costituito dallo scoglio. La differenza interpretativa tra i due consiste sostanzialmente nel fatto che in Leopardi si assiste nell’annullamento dell’Io in un mare infinito, mentre ciò non avviene in Alfieri: questi si immerge nell’immensità di entità fisiche, tangibili (come il cielo, o il mare), ed è in funzione di questi che è portato a fantasticare. Egli è inquieto, poiché sente di non appartenere a nessun luogo, né ha una meta. Dunque egli è animato da un perpetuo vagare, e forse la sua meta è proprio il viaggio…

GIACOMO LEOPARDI (1798-1837):

Come già detto, la lirica più rappresentativa del Leopardi è proprio “L’infinito”, di cui nel 2019 ricorreva il bicentenario (1819-2019). Di questa lirica, e più in generale Screenshot_2020-11-13-16-32-29-674_com.mi.globalbrowserdella concezione dell’infinito del poeta, si tratta in maniera più approfondita negli articol: “Un mare silenzioso: L’INFINITO LEOPARDIANO” e “Leopardi: il poeta dell’infinito“.   Ad ogni modo, l’infinito cui allude il poeta recanatese è da intendersi come la tensione innata dell’uomo verso la felicità, a cui la natura interpone degli ostacoli, cosicché interviene l’immaginazione, che spontaneamente è portata a prefigurarsi la raffigurazione del piacere: ecco che esistono delle immagini che suscitano nell’uomo l’idea di infinito. La lirica si conclude dunque con il “dolce naufragar” del poeta nel mare dell’infinito: si noti che il mare viene considerato il simbolo della vastità, e così verrà considerato anche da Montale. Ma “L’Infinito” non è l’unico componimento in cui Leopardi tratta questo tema: è il caso de “La ginestra” (o “Il fiore del deserto”). La ginestra diviene l’interlocutrice del poeta, il quale ammira questo fiore perché è consapevole della propria fragilità, ma nonostante ciò si rende flessibile ai colpi inferti dal destino avverso. La prima strofa volge al termine con un’aspra critica contro coloro che inneggiano ad una presunta posizione privilegiata del genere umano. Nella quarta strofa emerge lo straordinario sbigottimento del poeta che, contemplando il firmamento, si rende conto della nullità dell’uomo in confronto all’immensità dell’universo e alle stelle infinitamente distanti (“[…]globo ove l’uomo è nulla […] e quando miro quegli ancor più senza alcun fin remoti nodi quasi di stelle […] del numero infinito e della mole”). Con amara ironia, il poeta prosegue: “[…] e quante volte favoleggiar ti piacque, in questo oscuro granel di sabbia, il qual di terra ha nome[…]”. Il poeta è così sconcertato a causa della presunzione orgogliosa dell’uomo da non sapere se ridersi della sciocca superbia umana o se piangere la sua drammatica condizione.

GIUSEPPE UNGARETTI (1888-1970):

“MATTINA”

M’illumino

d’immenso

In sole quattro parole Ungaretti è in grado di restituirci qualcosa di Immagine correlatainfinito, privo di confini. È in generale tutto il movimento ermetico a caratterizzarsi per una straordinaria sintesi, che racchiude in sé significati profondissimi ed assai estesi, e questo componimento ne è considerato spesso il più rappresentativo. Quella di Ungaretti è stata definita non a caso una “poetica delle parole”: la parola, nella sua limpidezza ed essenzialità, è in grado di esprimere una vastità di significati. Infatti, con una fulminea espressione il poeta riesce a comunicare un senso di pienezza, di apertura verso l’illimitato, reso possibile soltanto per un frangente in cui l’uomo, per quanto ancora straziato dalla guerra in corso (Ungaretti scrisse questo componimento sul fronte), riesce a congiungersi in armonia con il mondo circostante. Una tale espressività è ottenuta per mezzo di una figura retorica dagli effetti prorompenti: la sinestesia, che, in questo caso, accosta la percezione visiva della luminosità quasi accecante, dunque una sensazione fisica, all’immagine astratta  dell’infinità. Si tratta di un’attimo, una rivelazione improvvisa delle profondità di tutte le cose, folgorante.

JORGE LUIS BORGES (1899-1986):

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Il cosiddetto “paradosso della replicazione infinita” (che, in breve, prospetta un
universo che, se infinito  in cui tutto si ripete, non vi è nulla di nuovo, ma tutto si
replicherà all’infinito) è stato in grado di affascinare filosofi, scienziati, come scrittori: è il caso dell’argentino Borges, nelle cui opere questo tema viene Immagine correlatadiffusamente trattato (come ne “Il libro di sabbia“, ma anche de “L’Aleph“, in cui comunque si parla di infinito). In particolare, si rivela molto interessante il racconto intitolato “La biblioteca di Babele”. La biblioteca descritta contiene nelle sue scaffalature una serie infinita di tutti i libri possibili ed immaginabili. La biblioteca è infinita, per età, per estensione, e si rifà alla definizione di universo infinito offerta da Niccolò da Cusa, secondo la quale il centro dell’universo è ovunque e la sua circonferenza in nessun luogo. Pare che l’allucinante biblioteca descritta da Umberto Eco ne “Il nome della rosa”, sia quasi una piccola “porzione della biblioteca di Babele. Eppure, Borges si rende conto che sta incorrendo in una serie di piccole ma poco funzionali incoerenze, come per esempio il fatto che il numero di libri sia finito, e non infinito, o anche che il numero di permutazioni di un numero finito di lettere non potrà mai essere infinito. Così specifica:

“Aggiungo: infinita. Non introduco quest’aggettivo per un’abitudine retorica; dico che non è illogico pensare che il mondo sia infinito.[…] Chi lo immagina senza limiti dimentica che è limitato il numero possibile dei libri. Io m’arrischio a insinuare questa soluzione: La Biblioteca è illimitata e periodica. Se un eterno viaggiatore la traversasse in una direzione qualsiasi, constaterebbe alla fine dei secoli che gli stessi volumi si ripetono nello stesso disordine (che, ripetuto, sarebbe un ordine: l’Ordine)”.

Dunque, abilmente Borges riesce a districarsi da queste difficoltà, affermando che la Biblioteca contenga soltanto un numero finito di libri differenti, tuttavia sarebbe impossibile per un lettore arrivare a prendere in considerazione tutti gli scaffali: sembra infinita, ma in realtà è estremamente grande; è un po’ come se fosse infinita in senso relativo: infinita agli occhi di un uomo (per un estratto del racconto cliccare qui).

MICHAEL ENDE (1929-1995):

“Ma questa è un’altra storia, e si dovrà raccontare un’altra volta”.

Lo scrittore tedesco M. Ende raggiunse una grandissima notorietà con il suo libro “La storia infinita”, che pubblico nel 1979. Attraverso questo libro, Ende intendeva Risultati immagini per la storia infinitapolemizzare contro il materialismo, in favore della fantasia. In tal senso, egli riteneva che compito dello scrittore fosse quello di “restituire al mondo il suo segreto sacro e la sua dignità”, e quindi “ridare alla vita magia e mistero”. Infatti, per Ende, la fantasia è un’attività pienamente degna di essere considerata frutto della mente, ed è dunque vera. Fantàsia è il mondo immaginario dove è ambientata buona parte della vicenda; esso non ha confini spaziali né temporali, per questo la sua storia non ha mai fine. Nonostante ciò le storie dei singoli personaggi, e anche le storie di quanto riguardi questo mondo fantastico, devono essere concluse, proprio perché l’ordine di Fantàsia sia preservato. Infatti, al volgere al termine del libro, le Acque della Vita chiedono al piccolo protagonista se ha portato a termine tutte le storie prima di lasciarlo passare. Ma non si tratta di una fine “definitiva”, piuttosto di un ciclo regolare della vita fantastica e reale: si viene così a creare un ciclo senza fine (ritorna la visione ciclica dell’esistenza, espressa, fra le altre cose, anche nel simbolo dell’Urobóros). Non solo: “La storia infinita” è anche un ramificarsi illimitato di collegamenti in ogni direzione, poiché chiunque può scegliere di portarla avanti, immaginare qualcosa che sia già avvenuto o che succederà. Molte storie sono dunque lasciate volutamente in sospeso da Ende, al fine di stimolare la fantasia del lettore.

Un labirinto vertiginoso e demoniaco: L’INFINITO DI BORGES

 

 

“Non solo vendo Bibbie, posso mostrarti un libro sacro. Forse ti interessa, l’ho acquisito nei confini di Bikanir”.

Jorge Luis Borges

Ci accingiamo ora ad esplorare un nuovo modo di vedere l’infinito, secondo la concezione dello scrittore Jorge Luis Borges, scrittore, poeta e accademico argentino. Le sue opere vengono associate al genere fantasy, o anche al “realismo magico”, di cui appunto lo scrittore è considerato l’iniziatore. Proponiamo una presentazione de “Il libro di sabbia”, raccolta di racconti di Borges, per addentrarci nella concezione di infinito propria di Borges.

“IL LIBRO DI SABBIA”

Prima di Jorge L. Borges, molti tra filosofi, matematici e scrittori avevano cerato di Risultati immagini per borgesdecifrare l’infinito. Ne “Il libro di sabbia”, lo scrittore argentino fornì una propria visione del concetto di infinito a dir poco sconcertante.

Nella breve storia che porta lo stesso nome del libro, il protagonista, Borges stesso, è visitato da un venditore di Bibbie, il quale gli offre un libro particolare: “Non solo vendo Bibbie, posso mostrarti un libro sacro. Forse ti interessa, l’ho acquisito nei confini di Bikanir”. Ma del resto Borges è un professore di letteratura inglese, in possesso di un gran numero di libri, abituato a vedere volumi di ogni tipo; cosa avrebbe potuto il venditore mostrargli che lo lasciasse sorpreso? Cosa poteva avere di interessante un libro, sulla cui copertina era scritto un anonimo “Sacra Scrittura-Bombay”?

Ebbene, Borges decide di aprire il libro, ad una pagina qualunque: le pagine erano consumate, il testo incomprensibile a causa di una tipografia scadente. Eppure…

“Mi ha colpito il fatto che la pagina pari avesse il numero (diciamo) 40514 e quello strano, il prossimo, 999”.

Immaginiamo che accada anche a noi: estraiamo un qualsiasi libro dagli scaffali della nostra biblioteca, e scopriamo una numerazione del tutto arbitraria e disordinata: la reazione di chiunque non può che essere di smarrimento e sbigottimento.

Ma non era finita, perché il venditore avverte Borges di fare attenzione: ogni pagina si può vedere una sola volta, dopodiché essa svanisce:

“Fu a questo punto che lo straniero mi disse: «Guarda attentamente l’illustrazione, non la vedrai mai più».

Il fatto che ogni pagina, una volta voltata, non sarà più ritrovabile, corrisponde alla proprietà degli infiniti non numerabili di Cantor, per cui infiniti altri numeri possono essere frapposti tra due numeri con infiniti decimali, . Inoltre, il tema dell’irripetibilità è molto caro a Borges, e la metafora della spiaggia è particolarmente efficace: immaginiamo di andare in spiaggia, di prendere una manciata di sabbia, quindi di lasciarla cadere, conservando un unico granello sul palmo della nostra mano: guardiamo questa sabbia cadere attentamente, perché mai più la rivedremo.

Ma le stranezze erano destinate a non finire: il libro è così misterioso che manca di una prima pagina, o meglio, il numero 1 sulla prima pagina è stato stampato, tuttavia, inesplicabilmente, ci sono sempre più pagine tra la copertina del libro e la prima pagina, cosicché risulta impossibile pervenire “a destinazione”, ossia alla pagina numero 1 (il fenomeno ricorda molto il paradosso zenoniano di Achille e della tartaruga, o anche il concetto di “insieme denso”).

“Mi ha chiesto di cercare la prima pagina. Ho messo la mano sinistra sul coperchio e l’ho aperta con il pollice quasi a toccare l’indice. Tutto era inutile: diversi fogli erano sempre interposti tra la copertina e la mano. Era come se uscissero dal libro”.

Altrettanto frustrante si rivela cercare l’ultima pagina del libro, come può essere sconcertante trovare il primo e l’ultimo granello di sabbia in spiaggia.

“«Ora cerca la fine». Ho anche fallito; sono riuscito a malapena a parlare con una voce che non era mia: «Questo non può essere…»”


 

“Se lo spazio è infinito, siamo in qualsiasi punto dello spazio.Se il tempo è infinito, siamo in qualsiasi momento”.

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L’INFINITO PER BORGES:

L’infinito, nella concezione di Borges, differisce sotto alcuni aspetti da quello che è l’infinito matematico, ineccepibilmente strutturato: basti pensare alla successione senza Immagine correlatafine dei naturali: 1,2,3,4,5,6,… Anche Borges si serve di numeri per esprimere il “suo” infinito, ma, come abbiamo visto, non esiste una pagina numero 1. Inoltre, aspetto ancora più importante, la numerazione delle pagine non segue una successione ordinata (che progredisse secondo il criterio di n+1, o simili, per esprimersi nel linguaggio della matematica). Egli ha aperto il libro alla pagina 40514, e la pagina successiva recava il numero 999, ma avrebbe potuto recare benissimo il numero 6593.

L’infinito che Borges concepisce, è assai distante dalla nostra concezione mentale, è un infinito che si sottrae a qualsiasi criterio che lo disciplini. L’infinito è irraggiungibile, ma anche inconcepibile in qualsiasi sua parte. La semplice, caotica numerazione di un libro come la “Sacra Scrittura”, può innalzare vertiginosamente all’infinito.

L’infinito, nell’ottica di Borges, è un labirinto, è il regno del caos, oppure, che è lo stesso, l’infinito è la fonte di ogni possibile finitudine.

BORGES E CANTOR:

Borges possedeva una straordinaria inclinazione letteraria, tuttavia egli era pervaso da

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Copertina della prime edizione de “L’Aleph”, 1949.

un profondo interesse per la matematica, anche; e ciò traspare diffusamente all’interno delle sue opere. A ben riflettere, il “libro di sabbia” richiama molto l’idea del continuo matematico (ossia un insieme “densamente ordinato”; si veda a “STORIA DELL’INFINITO MATEMATICO-Terza parte: Da Galileo a Dedekind“).

E infatti, ulteriore esempio dell’esistenza di numerosi punti di contatto tra l’opera di Borges e la matematica, è la raccolta di diciassette racconti intitolata “L’Aleph” (primo numero transfinito secondo la denominazione di Georg Cantor). L’omonimo racconto posto a conclusione dalla raccolta è incentrato sull’incontro tra il protagonista, ancora una volta lo stesso Borges, e Carlos A. Daneri, poeta mediocre e borioso, che un giorno scopre di dover lasciare la sua abitazione, che verrà adibita ad un’attività commerciale. La notizia sconvolge il poeta, il quale, andandosene, è costretto a perdere letteralmente tutto: sì, Daneri rischia di dover lasciare in quella casa l’Aleph, un angolo nascosto nella sua cantina in cui si trovano “tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli”. Così, in preda all’angoscia, egli decide di rivolgersi a Borges; questi decide di assecondarlo soltanto poiché convinto che il poeta sia solo un povero pazzo.  Borges esegue quanto il poeta gli indica per pervenire all’Aleph:

«Ti sdrai sul pavimento di mattonelle e fissi lo sguardo sul diciannovesimo gradino della scala. […] Dopo pochi minuti vedrai l’Aleph. Il microcosmo di alchimisti e cabalisti, il nostro concreto amico del proverbio  ‘multum in parvo’ [alla lettera “molto è contenuto nel piccolo”]!»”.

 

Presto, quando Borges si ritrova solo, è preso dallo sgomento:

“Carlos, per difendere il suo delirio, per non sapere che era pazzo, doveva uccidermi. Sentii un confuso malessere, che volli attribuire alla rigidità, e non all’effetto d’un narcotico. Chiusi gli occhi, li riaprii. Allora vidi l’Aleph”.

Se si desidera, è possibile leggere un estratto del racconto, in cui l’autore ci narra la sua esperienza visionaria.

Lo scrittore argentino ci riferisce di una visione quasi onirica: egli, osservando da una determinata prospettiva, può vedere tutto ciò che si trova nell’universo, riesce ad avere uno sguardo sull’intero universo! Si tratta quasi di una rivelazione, che naturalmente lo turba e lo sconvolge. Egli, con il passare del tempo, dimenticherà questa visione, forse nel timore di non essere più in grado di godere della vita nella sua pienezza, poiché la visione dell’universo nella sua totalità è un esperienza troppo vertiginosa, troppo spossante, da essere portata con sé per il resto della sua vita.

È vero, l’esperienza che l’autore ci riferisce è in grado di comunicare un senso di totalità e completezza, tale da sembrare esaurire tutto quanto sia possibile dire sull’infinito di Borges…Eppure  il titolo stesso fa riferimento soltanto alla prima lettera dell’alfabeto ebraico, lettera che è emblema della totalità di Dio congiunta a quella dell’universo. Non è che l’inizio…

 

Un mare silenzioso: L’INFINITO LEOPARDIANO

“Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

e questa siepe, che da tanta parte

dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

spazi di là da quella, e sovrumani

silenzi, e profondissima quïete

io nel pensier mi fingo, ove per poco

il cor non si spaura. E come il vento

odo stormir tra queste piante, io quello

infinito silenzio a questa voce

vo comparando: e mi sovvien l’eterno,

e le morte stagioni, e la presente

e viva, e il suon di lei. Così tra questa

immensità s’annega il pensier mio:

e il naufragar m’è dolce in questo mare”.

(Canti, XII)

LEOPARDI: IL POETA DELL’INFINITO

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“L’infinito è un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza ad un tempo e della nostra superbia […], l’infinito è un’idea, un sogno, non una realtà”.

Così afferma Giacomo Leopardi in un passo dello Zibaldone. La tematica dell’infinito è fortemente sentita dagli artisti romantici dell’Ottocento, tra cui spicca il poeta recanatese (benché egli non accettò fino in fondo tutti gli aspetti di questa corrente culturale). Al poeta è molto cara la tensione dell’uomo proteso verso l’infinito. Al centro della propria meditazione vi è il motivo del pessimismo, inerente all’infelicità dell’uomo. Le cause di tale infelicità sono esposte in alcune pagine dello Zibaldone. Secondo Leopardi infatti, la felicità coincide con piaceri materiali, sensibili, non astratti. Non desiderando però l’uomo un piacere ben determinato, particolare, e aspirando invece al piacere, inteso come piacere infinito per durata ed estensione, si è destinati a restare insoddisfatti. Infatti nessun piacere sperimentabile nel mondo può soddisfare una simile esigenza. Per cui tale insoddisfazione è destinata a sfociare nell’infelicità, la quale conduce alla visione della nullità di tutte le cose.

“Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempirci l’animo, e la tendenza verso un infinitoche non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L’ anima umana desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti: né per durata, né per estensione.[…] Quando l’anima desidera una cosa piacevole, desidera la soddisfazione del suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere, e non un tal piacere; ora nel fatto trovando un piacere particolare, e non astratto, ne segue che il suo desiderio non essendo soddisfatto di gran lunga, il piacere è appena piacere. E perciò tutti i piaceri devono essere misti di dispiacere, come proviamo, perché l’anima nell’ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè un’infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato”.

(Zibaldone, 165-167)

 

L’infelicità diviene, nell’universo leopardiano, una vera e propria necessità, ossia qualcosa di inevitabile. Unico rimedio a disposizione dell’uomo risiede nella sua mente: si tratta di pura immaginazione e di illusioni. È tale il modo di evadere da una realtà insopportabile. L’opportunità di immergersi in un “illusorio” vagheggiamento di infinito e di provare dunque un altrettanto illusorio appagamento al desiderio del piacere infinito è offerta da ogni cosa che sia vaga, lontana, indefinita. Vediamo come anche nella concezione leopardiana l’indefinito, l’ápeiron si coniughi alla perfezione con il concetto di infinito. Sono oggetti concreti ritrovabili nel mondo tangibile, che si caratterizzano per una particolare suggestività, creano un’“impressione”, sono evocativi. Spesso, per suscitare “idee infinite”, spiega il Leopardi, è sufficiente osservare alcuni oggetti in una prospettiva privilegiata, particolare, che permetta di vederli solo per metà, o “con certi impedimenti”. Ecco che la vista di una siepe può risultare particolarmente piacevole, perché in quel caso, tutto ciò che, a causa dell’ostacolo, è precluso alla vista, senso obiettivo e razionale per eccellenza, viene compensato da un fervido lavorìo dell’immaginazione:

“Perché allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale”.

 

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Filari di alberi, che, se ci si abbandona all’immaginazione, si vedrà dipanarsi all’infinito

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C. Monet, “Oliveto nel giardino Moreno”

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C. Monet, “Il sentiero delle rose”. Assolutamente straordinario come il sentiero sia quasi “trasfigurato” nella fugace suggestione che il pittore intende trasmettere: egli riesce ad “incanalare” lo sguardo e a far cercare una fine al sentiero, che tuttavia pare inarrivabile.

In parallelo, il poeta elabora una concezione ideale del suono, anche. Un canto lontano, evocativo, che giunga quasi come un sussurro, un’eco, che sfumi sino a divenire quasi impercettibile, ma che in realtà non diventi mai muto (ciò ricorda molto il concetto matematico di “tendente ad infinito”).

“È piacevole per se stesso, cioè non per altro, se non per un’idea vaga ed indefinita che desta, un canto (il più spregevole) udito da lungi o che paia lontano senza esserlo, o che si vada appoco appoco allontanando, e divenendo insensibile o anche viceversa (ma meno) o che sia così lontano, in apparenza o in verità, che l’orecchio e l’idea quasi lo perda nella vastità degli spazi”.

(Zibaldone)

 

Sicuramente anche i componimenti leopardiani, e in particolare la lirica “Infinito”, risuonano di tali “canti” remoti, efficacemente riprodotti.

L’“INFINITO” 

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Il componimento intitolato “Infinito”, composto nel 1819, fa parte della raccolta dei “Canti”. In tale opera, il poeta riunì tutti i componimenti che rispondevano alla sua idea di poesia come lirica, canto che sgorga dall’animo del poeta liberamente, e trovi un proprio ordine e una propria armonia al suo interno, e non in schemi prestabiliti. La poesia, facendo riferimento alla concezione filosofica del poeta

Secondo manoscritto autografo dell’ “Infinito”, datato 1819, di cui nel 2019 ricorre il bicentenario.    

(di cui abbiamo già parlato), deve essere in grado di evocare, di suscitare il senso del vago e dell’indefinito tutto attraverso l’uso di parole, di immagini e suoni. Perfino l’uso di parole desuete, dette “peregrine”, poiché lontane nell’uso, ha il precipuo scopo di riprodurre un canto “vago”: così si giustifica il fatto che i componimenti di Leopardi siano spesso costellati di latinismi, o di arcaismi in generale, che accentuano appunto la sensazione di indefinito che, secondo il poeta, coincide con l’essenza stessa della poesia.

La poesia, inoltre, si nutre di ricordi cari e familiari (la cosiddetta “rimembranza”.

E difatti, la poesia incomincia con la citazione di un colle particolarmente noto e familiare per il Leopardi. Egli siede, e, pur essendovi una siepe ad ostacolare la visuale, nonostante questo impedimento, inizia a meditare. È la stessa siepe ad attivare la sua immaginazione, che “scavalca” la siepe e lo pone dinnanzi all’infinito spaziale: egli viene dunque per un attimo pervaso dall’immensità spaziale dell’infinito (“interminati spazi”, vv. 4-5, espressione posta perfino in enjambement, con l’intenzione di rimarcarne il significato). Inoltre Leopardi, trattandosi della sua immaginazione, riesce persino ad udire il silenzio assoluto, di fatto inesistente nella realtà. A questo punto sente un angoscioso senso di smarrimento, in questa immensità indefinita. È il vento a riportarlo nella realtà, e a consentirgli di mettere a confronto il tempo con l’eternità, la voce del vento, con il silenzio dell’infinito. Si apre ora dinnanzi agli occhi dell’immaginazione del poeta l’immensità temporale: gli “sovvien” l’eternità, il passato, e il presente, vivo, pulsante nei rumori della vita. Ora il poeta non si sente più smarrito: egli si abbandona tutto all’infinito, si annulla con un brivido di piacere nel mare dell’infinito.

STRATEGIE FORMALI: 

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C. David Friederich, Mattino, 1821

La tensione tra finito e infinito si può cogliere anche da un punto di vista formale.

Infatti, il poeta tende a rimarcare la chiusura di uno spazio finito, limitato, usando esclusivamente brevissime parole, mentre a partire dal verso terzo, progressivamente le parole si fanno più lunghe, si amplificano, grazie anche agli enjambements; da notare è anche l’oscillazione tra queste due “sfere”, evidenziata dall’uso dei dimostrativi “questo” e “quello”. In un primo momento il poeta, esprimendo maggiore vicinanza al finito, adopererà il primo per rimarcare il limite della realtà tangibile, ed il secondo per evidenziare un infinito distante e remoto; in seguito, il gioco si ribalterà, una volta che egli si sia abbandonato a “questo mare” dell’infinito.

Anche i suoni sono disposti in maniera tale da conferire particolare rilevanza a parole che evocano il senso di infinito: si può far caso al ripetuto uso di “a”, dal suono aperto, in parole come tanta, interminati, profondissima, immensità.

In ultimo, lo stile adottato dal poeta è tutt’altro che impressionistico, ossia egli non traccia brevi e suggestivi tratti, bensì fornisce delle descrizioni che, nel lungo percorso “funambolico” tra finito ed infinito, egli vuole far assaporare piacevolmente ogni sensazione, lentamente.

Il rapporto dell’io con l’infinito

Se si presta attenzione alla disposizione dei periodi, si possono notare tre differenti approcci dell’io lirico nei confronti dell’infinito. Inizialmente, il poeta riesce a rendere efficacemente l’idea di essere sopraffatto dalla suggestione che l’infinito gli provoca, e infatti è presente un’inversione che colloca in primo piano gli interminati spazi, i sovrumani silenzi, la profondissima quïete, relegando in fondo al periodo il soggetto spaurito (io nel pensier mi fingo). Successivamente la struttura viene capovolta: l’io lirico, ridestato dal vento, riacquista padronanza di sé e passa ad un atteggiamento dinamico. Infine, nell’ultimo verso, dell’io lirico non rimane che un unico fonema (m’), avvolto tra le due parole chiave naufragar e dolce: ora che il poeta si è abbandonato all’infinito, il suo io si annulla, con l’immersione in questo mare, nell’ovattata dimensione di una prospettiva senza soluzione di continuità.

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David Friedrich, Un viandante sopra un mare di nuvole, 1818. 
Il celebre dipinto raffigura un viandante, in primo piano, che, pur essendo la figura più grande di tutto il quadro, tende a scomparire rispetto all’immensità che ha dinnanzi a sé. La nebbia, che nasconde la vallata, rendendone visibili solo alcune vette, sembra addirittura accrescerne le dimensioni, propagarle all’infinito. In questo caso, proprio come la siepe del Leopardi, la nebbia è la “molla che”, celando in una coltre il paesaggio, lo amplifica sino a farlo diventare infinito. Ancora una volta è l’infinito a vincere sull’individuo, e su ogni cosa.

All’interno di questa lirica sono contenuti tutti i principali temi relativi all’infinito: la tensione dell’uomo all’infinito, il contrasto tra finito ed infinito ed il rapporto tra l’individuo e l’infinito.

Tali tematiche sono riscontrabili anche in altri ambiti, dalle religioni, alla ricerca scientifica. In questo caso, naturalmente, Leopardi propone la sua peculiare visione dell’infinito: esso è un’illusione, un silenzioso mare in cui è possibile immergersi tramite la propria immaginazione.

Fare esperienza di questo tipo di infinito non è sicuramente all’ordine del giorno, tuttavia probabilmente sarà accaduto ad ognuno, nel riflettere, di essere rapiti dalla realtà, di ritrovarsi catapultati in una dimensione totalmente soggettiva, immaginaria, magari soltanto per pochi attimi.

L’infinito, per Leopardi, non coincide con la realtà, non si può trovare nel mondo concreto e tangibile.

È l’immaginazione ad essere infinita, e a trionfare sul limitato mondo reale.