Echi di parole: la storia di Narciso ed Eco

Se richiamiamo alla mente la nostra prima esperienza dell’eco, rammentiamo probabilmente di aver provato un senso di meraviglia nel renderci conto che era proprio la nostra voce a sdoppiarsi e propagarsi, chissà per quante volte. Tuttavia, se non avessimo mai sentito parlare di questo affascinante fenomeno acustico, forse la nostra prima reazione sarebbe stata di disorientamento. Ma consideriamo per un momento il seguente dittico.

Da un lato uno scatto fotografico, dall’altro un dipinto surrealista. Entrambe le immagini colgono scorci prospettici che danno su altri scorci, attraverso un gioco di alternanza tra interno ed esterno; la prima lo rende catturando bifore e finestre da angolature diverse, la seconda incorniciando un edificio in un altro edificio sostanzialmente identico, in maniera volutamente irrealistica. Immagini come queste catturano irresistibilmente la nostra attenzione.

L’eco: un fenomeno solo acustico?

Naturalmente, da un punto di vista strettamente fisico, l’eco resta quel fenomeno acustico in virtù del quale il suono, essendo un’onda elastica, nel suo propagarsi attraverso un mezzo viene riflesso dopo aver incontrato un ostacolo. Tuttavia, anche le immagini appena proposte suscitano un vivo senso di stupore e se per un istante mettiamo da parte la nostra consapevolezza che ad ogni opera d’arte, come quella di Magritte, soggiace necessariamente una finzione artistica di disorientamento. Meraviglia e disorientamento sono alla base di entrambe le esperienze sensoriali, e dunque in questo senso più ampio è lecito parlare di echi, visivi e sonori. A tale intima connessione tra sfera visiva e uditiva dovevano essere particolarmente sensibili uomini che vivevano in un mondo in cui non esistevano dispositivi atti alla riproduzione pedissequa dei suoni o delle immagini; l’inesistenza di macchine fotografiche e di registratori doveva rendere esperienze come quella dell’eco o dello specchiarsi in un rivolo d’acqua davvero stupefacenti ai loro occhi. Significativo è allora che un termine proprio della fisica greca, anàklasis, “riflessione”, e il termine latino imago possano essere attribuiti sia al riflesso visivo che all’eco propriamente detto. Ovidio stesso doveva aver colto questo nesso, e si spinse fino al punto da ricrearlo attraverso la parola.

Narciso ed Eco secondo Ovidio

Nel terzo libro delle Metamorfosi, il poeta latino inscena o dovremmo forse dire intona un virtuosistico capolavoro illusionistico, attraversato per tutta la sua durata proprio dal termine imago: “imago vocis”, v. 385 (“il riverbero della voce”, “l’eco”), “imago formae”, v. 416 (“l’immagine della bellezza”), “ista repercussa…imaginis umbra est” v. 434 (“quella…è l’ombra di un’immagine riflessa”) da notare qui il termine scientifico repercussus, che nella prosa è usato anche per il riverbero di voci , “nec mea fallit imago” v. 463 (“né mi inganna la mia immagine”).

Se desiderate leggere integralmente questo passo delle Metamorfosi, qui troverete il testo originale accanto alla traduzione in Italiano.

Narciso è un personaggio mitologico poco ricorrente nella letteratura precedente a Ovidio. Dunque un personaggio che concede al poeta latino ampi margini per essere plasmato in modo originale. Il fanciullo è figlio di Liriope (nome in assonanza con lèirion, in Greco “giglio”, fiore considerato dagli antichi affine al narciso) e del fiume Cefiso. Consultato il vate Tiresia in merito al suo avvenire, se gli avrebbe o meno riservato la longevità,

Narciso, F. Lemoyne (1728).

[…] Fatidicus vates « Si se non noverit » inquit.

[…] Il profetico indovino disse : « Se non si riconoscerà » disse. (v. 348)

E ciò che provocherà il riconoscimento di sé in Narciso sarà proprio uno specchio d’acqua. Un ostacolo da nulla, come egli stesso lamenterà: “minimum est, quod amantibus obstat” (“è un nonnulla che ostacola gli amanti” v. 453). Un limite sottilissimo, labilissimo, eppure invalicabile.

Di tale bellezza da suscitare l’interesse di numerosi pretendenti, egli li rifiuta sdegnosamente, finché uno di loro lancia contro di lui una maledizione, quella cioè “sic amet ipse licet, sic non potiatur amato” (“che possa anch’egli amare, che possa non far suo l’amato”, v. 405). Questa sua condotta altera, riportata anche nelle versioni precedenti della storia, dà modo al poeta di annodare le fila della vicenda di Narciso a quella della ninfa Eco, intreccio, per quanto sappiamo, tutto ovidiano. Peraltro, anche la Eco ovidiana, condannata da Giunone a “reddere novissima…verba” (“ripetere le ultime parole”, v. 361), possiede una sua propria fisionomia, che si caratterizza per un’attitudine attiva nel suo desiderio amoroso, in opposizione quasi ironica con la condizione di passività della sua voce (sebbene, come vedremo, la ninfa saprà volgere il suo limite a proprio vantaggio, in modo creativo). Analogamente, in Narciso insanabile è l’antitesi tra il suo ruolo di eròmenos (“amato”) ed erastès (“amante”): queste contraddizioni provocano in entrambi una forma di alienazione, e quindi la frustrazione dell’incomunicabilità. Ancor più interessante è la valorizzazione di questi aspetti da parte del poeta tramite una serie di espedienti verbali elegantemente studiati.

Così, per quanto riguarda il fenomeno della riflessione acustica che compete a Eco, “vocalis nymphe”, meraviglia senz’altro la proliferazione del prefisso re-, che ritorna come un motivo perpetuo intermittente ogni qualvolta Eco torna sulla scena, direttamente o indirettamente. Questi i versi in cui entra in scena la ninfa o, come forse sarebbe più calzante dire, fa ingresso il “tema di Eco”:

Aspicit hunc trepidos agitantem in retia cervos

vocalis nymphe, quae nec reticere loquenti

nec prior ipsa loqui didicit, resonabilis Echo.

Lo guarda mentre sospinge nelle reti i cervi tremanti

una ninfa dalla bella voce, che non sa tacere con chi parla

né parlare lei stessa per prima, Eco che può solo riecheggiare i suoni (v. 356-358)

Osserviamo che il virtuosismo ovidiano, con ancor più sottile raffinatezza, giunge a mimare l’ecolalia in fieri, nella sua dissolvenza. Altro esempio, oltre ai versi precedenti, ne è il verso 383:

Respicit et rursus nullo veniente «Quid» inquit […]

Si guarda indietro e di nuovo, non venendo nessuno, «Perché» dice […]

Talvolta è possibile rinvenire anche un’inversione del motivo nello speculare /er/, analogamente a quanto accade con i temi musicali. Certamente non è detto che questa ricorsività sia sempre voluta e non sia piuttosto il frutto di un naturale accostamento delle due lettere nelle parole impiegate da Ovidio, ma è pur vero che la coesistenza con il prefisso re- nello stesso verso, o addirittura nella stessa parola (responderat, v.380; repercussae, v.434) conforta la nostra supposizione. In ogni caso, anche se si trattasse di un’involontaria ricorrenza, essa contribuisce senz’altro ad arricchire di armonici un testo estremamente curato nella sua musicalità.

Per i riflessi visivi relativi a Narciso, sono predilette invece le figure di ordine.

Et placet et video, sed quod videoque placetque […]

Mi piace e lo vedo, ma ciò che vedo e mi piace […] (v. 446)  

In questo verso, la disposizione chiastica è iconica: pone immediatamente davanti ai nostri occhi Narciso che si specchia alla fonte. Ancora, l’alternanza di diatesi attiva e passiva è efficacemente sfruttata:

[…] cunctaque miratur, quibus est mirabilis ipse.

Se cupit imprudens et qui probat ipse probatur,

dumque petit petitur, pariterque accendit et ardet.

[…] e ammira tutte le qualità per le quali egli è degno d’ammirazione.

Se stesso brama, sconsiderato, e lo stesso che apprezza è apprezzato,

e mentre desidera è desiderato, insieme accende la passione e ne brucia. (vv. 424-426)

Narciso che si specchia nella vasca di una fontana.
Dettaglio da “Le Poème de l’eau”, A. Charpentier, 1894.

Nel mezzo, l’incontro tra i due: Ovidio lascia che gli effetti escogitati per entrambi interferiscano l’un l’altro, moltiplicandosi e dando luogo a equivoci. Nell’espressione “vocat illa vocantem” (v. 382) si condensano la simmetria del riflesso visivo e l’assonanza che richiama immediatamente il riflesso acustico.

Non solo: nello scambio di battute tra i due, Eco sa approfittare di ogni occasione che Narciso le offre, servendosi della propria limitata facoltà vocale per volgere le frasi del giovinetto al significato da lei desiderato. Lampante è il seguente esempio, in cui Eco gioca sull’ambiguità del verbo coeo, che può significare sia “riunirsi” che “congiungersi”:

«Huc coeamus» ait, nullique libentius umquam

responsura sono «Coeamus » rettulit Echo […]

«Qui riuniamoci» dice, e Eco, che non avrebbe mai potuto

rispondere ad alcun suono più volentieri, replicò «Uniamoci» […] (v. 386-387)

In definitiva, Eco dimostra di essere in grado di fare un uso attivo e creativo della propria voce, pur se limitato; il fenomeno stesso dell’eco non viene presentato come un fenomeno pedissequo e deterministico, ma anzi come una forza capace di imprimere alle circostanze un corso inaspettato. Ma nonostante i suoi sforzi, Narciso rifiuta le sue attenzioni. Consunta dalla vergogna e dall’amore che continua a nutrire, Eco si rifugia in antri solitari il luogo propizio al verificarsi dell’eco, da un punto di vista scientifico e in lei perisce progressivamente ogni fattezza fisica, fino a diventare mera voce.

La fine di Narciso e l’effetto ipnotico della replicazione

Narciso, in seguito, cercando ristoro in una radura, scorge il proprio riflesso nell’acqua e se ne innamora, inizialmente in modo inconsapevole (cfr. “nescit”, “non sa/riconosce”, v. 430). Ora, lo specchio d’acqua è inlimis, cioè puro, proprio come Narciso. Degno di nota, senz’altro, che sia Narciso che Eco siano attratti dalla purezza, e che il poeta restituisca questo attraverso la similitudine dello zolfo che viene infiammato per la prima volta, da intatto che era (riferito al Narciso amato da Eco), e l’immagine dello specchio d’acqua incontaminato (mezzo che dà consistenza visiva al sé amato da Narciso). In quest’ultimo caso, Alessandro Barchiesi osserva che all’immaginario del poeta doveva essere ben presente l’uso romano di collocare statue nei giardini creando effetti illusionistici attraverso specchi d’acqua.

Ed è precisamente nello specchio che si annida l’inganno: la corresponsione d’amore presuppone non già l’identità, ma l’asimmetria. Narciso, nell’invaghirsi del proprio riflesso, incorre proprio in questa troppo perfetta specularità. Questo conduce il fanciullo a desiderare di sdoppiarsi, come tradisce l’uso del plurale (“Nunc duo concordes anima moriemur in una”, “Ora in due concordi moriremo in una sola anima” v. 473). Nel momento in cui egli si riconosce, esclama: Iste ego sum! (“Costui sono io!” v. 463), un paradosso logico-grammaticale, perché iste afferisce alla sfera della seconda persona, mentre ego a quella della prima persona. Ancora una volta la forma plasma la narrazione. Tale assurdo grammaticale fa affiorare l’inconciliabilità insanabile di identità e alterità, di essere e apparire, di realtà e finzione. La scissione alla fine si realizza:

[…] dictoque «Vale » «Vale » inquit et Echo.

[…] e, come egli ebbe detto « Addio », disse « Addio » anche Eco. (v. 501)

Qui Eco sopperisce all’impossibile risposta del riflesso di Narciso, ma estremamente significativo è l’aspetto metrico nell’iterazione della parola vale (le Metamorfosi sono un poema in esametri dattilici; per una illustrazione di questo metro, potete consultare questo sito). La scansione metrica è semplificabile così: valé val(e) ínquit. Il primo vale presenta l’ultima sillaba lunga, cui segue il secondo, con la prima sillaba breve, e la seconda per così dire assorbita dalla parola che segue (tecnicamente, si tratta di una sinalefe): la metrica crea dunque un effetto sonoro che in questo caso coniuga l’emulazione dell’eco a quella di un saluto che si affievolisce, che in musica definiremmo un diminuendo.

Dunque, la peculiarità della morte di Narciso, secondo la narrazione ovidiana, è frutto di una condizione tutta mentale, e le modalità stesse del suo consumarsi sono del tutto eteree. Al posto del suo corpo verrà rinvenuto un “fiore color di croco cinto da petali bianchi”, il cosiddetto Narcissus poeticus. È interessante notare che in un certo senso la metamorfosi di Narciso era già stata prefigurata dal nome di sua madre, così come la sua genealogia fluviale può avere una qualche correlazione con il fatto che ad attrarre le sue attenzioni sia da una fonte.

Tavola botanica del Narcissus poeticus

Osserviamo che il fanciullo aveva compreso di essere vittima dell’illusione, avverando così la profezia di Tiresia. Si può per questo dire che Narciso sia tutt’altro che inesperto? Al contrario: egli è sconvolto dal primo innamoramento come ogni fanciullo in età febica, e per di più commette l’ingenuità di infrangere la dike amorosa, la giustizia che presiede alle norme che regolano l’amore, tema così sentito nell’antichità. Egli dimostra a più riprese un certo disorientamento, provocato dapprima dalle ecolalie della ninfa (“Hic stupet”, “Questi resta stupefatto” v.381), quindi dal proprio riflesso (“Adstupet”, “si meraviglia” v. 418), tanto che Ovidio lo apostrofa come credule, cioè esattamente come “ingenuo”. Ed è per questo che, nonostante egli razionalizzi il fenomeno naturale dell’illusione ottica, non può fare a meno di essere sopraffatto da uno smarrimento istintuale, irretito com’è, in modo quasi ipnotico, alla vista della propria immagine che si replica. Vana suona allora la rassicurante spiegazione lucreziana:

Se esamini bene questo fenomeno, puoi rendere sicura ragione,

a te stesso e agli altri, di come nei luoghi solitari

le rocce ripercuotano uguali e nel medesimo ordine le parole,

quando fra tenebrosi monti cerchiamo compagni vaganti

e levando alta la voce li chiamiamo disperati. […]

I vicini di questi luoghi immaginano che li abitino i Satiri

dai piedi di capra e Ninfe, e dicono che vi sono Fauni […]

De rerum natura, vv. 572-581 (traduzione di Luca Canali)

Il razionalismo lucreziano viene rovesciato, tanto più che Eco è davvero una ninfa, un essere sovrannaturale. D’altronde, l’illusione stordente è la protagonista della vicenda, come ha sottolineato Gianpiero Rosati, mentre l’amore di sé costituisce piuttosto un controcanto. In altre parole, l’amore è piegato alla logica della distorsione della realtà, attuata dalle illusioni uditive e visive. Ciò è confortato dalla ricorsività di termini afferenti alla sfera semantica dell’inganno: deceptus (v. 385), fallit (v. 463), error (v. 447). Ma le intenzioni del poeta sono ancor più esplicitamente dichiarate, nel momento in cui parla di una novitas furoris (v. 350), cioè di un amore anomalo, se vogliamo irrealistico, che trascende appunto la quotidianità, pur celandosi dietro situazioni di apparente normalità (in altro contesto, non desterebbero alcuno stupore espressioni amorose del tutto comuni, come questa: Steso in terra guarda due astri, la luce dei suoi occhi”, v. 454). Ecco perché un simile “trionfo della grammatica” in questo passo, ecco perché Ovidio dispiega la propria arte, anch’essa illusionistica, in tutta la sua potenza: l’artista non pretende di mascherare la natura fittizia dell’arte, anzi si propone di metterla a nudo, in modo analogo a quanto realizza Magritte nel quadro sopra proposto, in un certo qual modo, ricreando cioè una prospettiva straniante a partire da circostanze assolutamente comuni. La differenza tra lo spettatore che ammira il dipinto di Magritte e Narciso che ammira il proprio riflesso sta proprio nella capacità di non lasciarsi sopraffare dalla finzione artistica, che in Narciso è assente.

Tutti gli espedienti letterari impiegati da Ovidio assumono dunque una nuova luce. Osservando meglio tra le pieghe della scrittura, l’eco stessa non brilla della sua tradizionale giocosità, non offre il volto della iocosa imago che normalmente diletta anche noi. Vi è una venatura tragica nell’assonanza, ancora una volta mimante l’eco, in fin di verso, tra Echo e il duplice eheu interiezione tipica della tragedia:

nec corpus remanet, quondam quod amaverat Echo.

Quae tamen ut vidit, quamvis irata memorque

indoluit, quotiensque puer miserabilis «Eheu

dixerat, haec resonis iterabat vocibus «Eheu!» (vv. 493-496).

Il mito di Narciso ed Eco è allora, se vogliamo, una miniatura del poema stesso: labirintico, intessuto di effetti illusionistici. Tanto che Italo Calvino doveva intitolare in modo significativo la sua introduzione all’edizione delle Metamorfosi del 1979, cioè Gli indistinti confini, sintetizzando così il procedimento di dissoluzione dei contorni ben delineati del mondo così come ci appare, che Ovidio attua nel narrare storie di forme che si trasmutano in altre forme. E sempre Calvino, nelle sue Lezioni americane, sosteneva che nel poema “tutto deve […] imporsi all’immaginazione, ogni immagine deve sovrapporsi a un’altra immagine […]”, un simultaneo affaccio su molteplici prospettive, che la fotografia proposta in apertura ben ci consente di visualizzare. L’eco, visiva e acustica, è l’emblema più compiuto di quanto di più evanescente possiamo sperimentare, dell’illusorietà, che a un tempo ci attrae e ci disorienta, dal momento che sfugge al nostro controllo razionale. Anche per questo è fondamentale nella storia la presenza della ninfa Eco, attraverso la quale si amplifica il tema della replicazione incontrollata. E qualcosa di incontrollabile è presente anche nell’attrazione che Narciso nutre per sé: egli continua a essere attratto dal proprio riflesso anche nell’oltretomba, dove si specchia nelle acque stigie. La sua è un’attrazione insaziabile, che non conosce limite, infinita.

Dispiegando la propria maestria nell’ars poetica, e la rara abilità di veicolare vividamente il suono e l’immagine attraverso la parola, Ovidio mette in musica gli effetti frastornanti della replicazione, la vertigine dell’illusorietà; in una sola parola, l’infinito, considerato in uno dei suoi tanti volti: in questo caso, quello dell’iterazione di un numero imprevedibile di copie di sé, dell’anomalia subdolamente annidata nella nostra quotidianità (se vogliamo, quello stesso volto dell’infinito esplorato da Jorge L. Borges). Nell’attraversare anche solo un passo di questo poema dalle immagini affastellate l’una sull’altra, il loro riverbero non può che lasciare in noi un grande senso di meraviglia.

Ringrazio Laura Picchi per avermi permesso di utilizzare la bella fotografia che ha scattato nel Castello di Olite.

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