Libri all’infinito: l’infinito in Letteratura

L’infinito è un concetto così affascinante che anche la letteratura consta di straordinarie interpretazioni della sua natura.

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Tra i maggiori interpreti dell’infinito in letteratura troviamo senz’altro Leopardi, con il suo componimento “L’infinito”, forse la lirica divenuta più emblematica della sua poetica. Parrebbe che perfino Shakespeare (si veda l’articolo Hamlet and infinite universe), nel suo capolavoro, l’Amleto, abbia espresso l’idea di un universo infinito, rifacendosi alle tesi degli scienziati contemporanei, come Thomas Digges

Molti altri ancora hanno espresso la propria peculiare visione in merito (e se siete alla ricerca di letture che parlano dell’infinito, potete leggere l’articolo: “Per una personale biblioteca infinita”).

VITTORIO ALFIERI (1749-1803)

Alfieri costituisce forse la rappresentazione più paradigmatica dell’eroe preromantico,

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“Viandante”, Carlo Domenici, 1925 c.a.

del viandante, insomma, tutti quei temi che saranno poi cari al movimento romantico. (per un approfondimento in merito si ascolti la spiegazione del professor Matteo Saudino). Il viandante è colui che, secondo la concezione romantica, non ha una propria identità, colui che intraprende coraggiosamente lunghi viaggi, che sono poi una ricerca di se stessi, sfidando i limiti della realtà: vuole scoprire cosa c’è oltre la realtà, e vuole dunque valicare l’ostacolo che lo separa da quel mondo ignoto e affascinante, insoddisfatto dalla quotidianità e nel rifiuto di un universo limitato. Se in Leopardi l’ostacolo è la siepe, in Alfieri esso è costituito dallo scoglio. La differenza interpretativa tra i due consiste sostanzialmente nel fatto che in Leopardi si assiste nell’annullamento dell’Io in un mare infinito, mentre ciò non avviene in Alfieri: questi si immerge nell’immensità di entità fisiche, tangibili (come il cielo, o il mare), ed è in funzione di questi che è portato a fantasticare. Egli è inquieto, poiché sente di non appartenere a nessun luogo, né ha una meta. Dunque egli è animato da un perpetuo vagare, e forse la sua meta è proprio il viaggio…

GIACOMO LEOPARDI (1798-1837)

Come già detto, la lirica più rappresentativa del Leopardi è proprio “L’infinito“, di cui nel 2019 ricorreva il bicentenario (1819-2019). Della concezione di infinito leopardiana si tratta più diffusamente negli articoli: “Un mare silenzioso” e “Leopardi: il poeta dell’infinito“. Ad ogniScreenshot_2020-11-13-16-32-29-674_com.mi.globalbrowser modo, l’infinito cui allude il poeta recanatese è da intendersi come il tendere in maniera innata dell’uomo alla felicità, a cui la natura interpone degli ostacoli, cosicché interviene l’immaginazione umana, che spontaneamente è portata a prefigurarsi la rappresentazione del piacere: ecco che esistono delle immagini che suscitano nell’uomo l’idea di infinito. La lirica si conclude dunque con il “dolce naufragar” del poeta nel mare dell’infinito: si noti che il mare viene considerato il simbolo della vastità, e così verrà considerato anche da Montale. Ma “L’Infinito” non è l’unico componimento in cui Leopardi tratta questo tema: è il caso de “La ginestra” (o “Il fiore del deserto”). La ginestra diviene l’interlocutrice del poeta, il quale ammira questo fiore perché è consapevole della propria fragilità, ma nonostante ciò si rende flessibile ai colpi inferti dal destino avverso. La prima strofa volge al termine con un’aspra critica contro coloro che inneggiano ad una presunta posizione privilegiata del genere umano. Nella quarta strofa emerge lo straordinario sbigottimento del poeta che, contemplando il firmamento, si rende conto della nullità dell’uomo in confronto all’immensità dell’universo e alle stelle infinitamente distanti (“[…] globo ove l’uomo è nulla […] e quando miro quegli ancor più senza alcun fin remoti nodi quasi di stelle […] del numero infinito e della mole”). Con amara ironia, il poeta prosegue: “[…] e quante volte favoleggiar ti piacque, in questo oscuro granel di sabbia, il qual di terra ha nome […]”. Il poeta è così sconcertato a causa della presunzione orgogliosa dell’uomo da non sapere se ridersi della sciocca superbia umana o se piangere la sua drammatica condizione.

GIUSEPPE UNGARETTI (1888-1970)

“MATTINA”

M’illumino

d’immenso

In sole quattro parole Ungaretti è in grado di restituirci qualcosa di Immagine correlatainfinito, privo di confini. È in generale tutto il movimento ermetico a caratterizzarsi per una straordinaria sintesi, che racchiude in sé significati profondissimi ed assai estesi, e questo componimento ne è considerato spesso il più rappresentativo. Quella di Ungaretti è stata definita non a caso una “poetica delle parole”: la parola, nella sua limpidezza ed essenzialità, è in grado di esprimere una vastità di significati. Infatti, con una fulminea espressione il poeta riesce a comunicare un senso di pienezza, di apertura verso l’illimitato, reso possibile soltanto per un frangente in cui l’uomo, per quanto ancora straziato dalla guerra in corso (il componimento fu scritto sul fronte), riesce a congiungersi in armonia con il mondo circostante. Una tale espressività è ottenuta per mezzo di una figura retorica dagli effetti prorompenti: la sinestesia, che, in questo caso, accosta la percezione visiva della luminosità quasi accecante, dunque una sensazione fisica, all’immagine astratta  dell’infinità. Si tratta di un attimo, di una rivelazione improvvisa delle profondità di tutte le cose, folgorante.

JORGE LUIS BORGES (1899-1986)

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In personalità come quella di Borges vediamo realizzato veramente un connubio tra letteratura e discipline matematico-scientifiche; in particolare, molti punti di contatto sono presenti tra Borges e G. Cantor, proprio a proposito del concetto di infinito (si veda il confronto effettuato tra i due nell’articolo “Un labirinto vertiginoso e demoniaco: L’INFINITO DI BORGES“). Ancora, un collegamento con altre discipiline in Borges è il cosiddetto “paradosso della replicazione infinita” (che, in breve, prospetta un universo che, se infinito, prevederà che tutto si ripeta, che non vi sia nulla di nuovo, ma tutto si replicherà all’infinito), in grado di affascinare filosofi, scienziati, come scrittori: è appunto il caso dell’argentino Borges, nelle cui opere questo tema viene Immagine correlatadiffusamente trattato (come ne “Il libro di sabbia“). In particolare, si rivela molto interessante il racconto intitolato “La biblioteca di Babele“. La biblioteca descritta contiene nelle sue scaffalature una serie infinita di tutti i libri possibili ed immaginabili. La biblioteca è infinita, per età, per estensione, e si rifà alla definizione di universo infinito offerta da Niccolò da Cusa, secondo la quale il centro dell’universo è ovunque e la sua circonferenza in nessun luogo. Pare che la labirintica biblioteca descritta da Umberto Eco ne “Il nome della rosa, sia quasi una piccola “porzione” della biblioteca di Babele. Eppure, Borges si rende conto che sta incorrendo in una serie di piccole ma poco funzionali incoerenze, come per esempio il fatto che il numero di libri sia in realtà finito, e non infinito, o anche che il numero di permutazioni di un numero finito di lettere non potrà mai essere infinito. Così specifica:

“Aggiungo: infinita. Non introduco quest’aggettivo per un’abitudine retorica; dico che non è illogico pensare che il mondo sia infinito.[…] Chi lo immagina senza limiti dimentica che è limitato il numero possibile dei libri. Io m’arrischio a insinuare questa soluzione: La Biblioteca è illimitata e periodica. Se un eterno viaggiatore la traversasse in una direzione qualsiasi, constaterebbe alla fine dei secoli che gli stessi volumi si ripetono nello stesso disordine (che, ripetuto, sarebbe un ordine: l’Ordine)”.

Dunque, abilmente Borges riesce a districarsi da queste difficoltà, affermando che la Biblioteca contenga soltanto un numero finito di libri differenti, tuttavia sarebbe impossibile per un lettore arrivare a prendere in considerazione tutti gli scaffali: sembra infinita, ma in realtà è soltanto estremamente grande; è un po’ come se fosse infinita in senso relativo: infinita agli occhi di un uomo (per un estratto del racconto cliccare qui).

MICHAEL ENDE (1929-1995)

“Ma questa è un’altra storia, e si dovrà raccontare un’altra volta”.

Lo scrittore tedesco M. Ende raggiunse una grandissima notorietà con il suo libro “La storia infinita“, che pubblico nel 1979. Attraverso questo libro, Ende intendeva

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Una scena del film “La storia infinita”, del 1984

polemizzare contro il materialismo, in favore della fantasia. In tal senso, egli riteneva che compito dello scrittore fosse quello di “restituire al mondo il suo segreto sacro e la sua dignità”, e quindi “ridare alla vita magia e mistero”. Infatti, per Ende, la fantasia è un’attività pienamente degna di essere considerata frutto della mente, ed è dunque vera. “Fantàsia” è il mondo immaginario dove è ambientata buona parte della vicenda; esso non ha confini spaziali né temporali, per questo la sua storia non ha mai fine. Nonostante ciò, le storie dei singoli personaggi, e anche le storie relative a questo mondo fantastico, devono essere concluse, proprio perché l’ordine di Fantàsia sia preservato. Infatti, al volgere al termine del libro, le Acque della Vita chiedono al piccolo protagonista se ha portato a termine tutte le storie, prima di lasciarlo passare. Ma non si tratta di una fine “definitiva”, piuttosto di un ciclo regolare della vita fantastica e reale: si viene così a creare un ciclo senza fine (ritorna così la visione ciclica dell’esistenza, espressa anche nel simbolo dell’Urobóros, che, peraltro, è anche il simbolo raffigurato sul talismano Auryn, presente ne “La storia infinita”). Non solo: “La storia infinita” è anche un ramificarsi illimitato di collegamenti in ogni direzione, poiché chiunque può scegliere di continuare la narrazione, immaginando qualcosa che sia già avvenuto o che succederà. Molte storie sono dunque lasciate volutamente in sospeso da Ende, al fine di stimolare la fantasia del lettore…

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