“Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare”.
(Canti, XII)
Si consiglia di vedere il componimento recitato dall’attore Elio Germano, nel film “Il giovane favoloso”.
Leopardi può essere considerato il “poeta dell’infinito“: il suo pensiero è fortemente incentrato sul fatto che l’uomo spontaneamente tenda all’infinito, appunto, attraverso il lavorìo dell’immaginazione.
Ci accingiamo ad analizzare il componimento, ma per un ulteriore approfondimento si veda l’interpretazione critica di Guido Guglielmini.

“L’infinito è un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza ad un tempo e della nostra superbia […], l’infinito è un’idea, un sogno, non una realtà”.
“Perché allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale”.

Filari di alberi, che, se ci si abbandona all’immaginazione, si vedrà dipanarsi all’infinito

C. Monet, “Oliveto nel giardino Moreno”

C. Monet, “Il sentiero delle rose”. Assolutamente straordinario come il sentiero sia quasi “trasfigurato” nella fugace suggestione che il pittore intende trasmettere: egli riesce ad “incanalare” lo sguardo e a far cercare una fine al sentiero, che tuttavia pare inarrivabile.
L’“INFINITO”

Secondo manoscritto autografo dell’ “Infinito”, datato 1819, di cui nel 2019 ricorre il bicentenario.
Il componimento intitolato “Infinito”, composto nel 1819, fa parte della raccolta dei “Canti”. In tale opera, il poeta riunì tutti i componimenti che rispondevano alla sua idea di poesia come lirica, canto che sgorga dall’animo del poeta liberamente, e trovi un proprio ordine e una propria armonia al suo interno, e non in schemi prestabiliti. La poesia, facendo riferimento alla concezione filosofica del poeta, deve essere in grado di evocare, di suscitare il senso del vago e dell’indefinito, tutto attraverso l’uso di parole, di immagini e suoni. Perfino l’uso di parole desuete, dette “peregrine”, poiché lontane nell’uso, ha il precipuo scopo di riprodurre un canto “vago”: così si giustifica il fatto che i componimenti di Leopardi siano spesso costellati di latinismi, o di arcaismi in generale, che accentuano appunto la sensazione di indefinito che, secondo il poeta, coincide con l’essenza stessa della poesia. La poesia, inoltre, si nutre di ricordi cari e familiari (la cosiddetta “rimembranza”).
E difatti, la poesia incomincia con la citazione di un colle particolarmente noto e familiare per il Leopardi. Egli siede, e, pur essendovi una siepe ad ostacolare la visuale, nonostante questo impedimento, inizia a meditare. È la stessa siepe ad attivare la sua immaginazione, che “scavalca” la siepe e lo pone dinnanzi all’infinito spaziale: egli viene dunque per un attimo pervaso dall’immensità spaziale dell’infinito (“interminati spazi”, vv. 4-5, espressione posta perfino in enjambement, con l’intenzione di rimarcarne il significato). Inoltre Leopardi, trattandosi della sua immaginazione, riesce persino ad udire il silenzio assoluto, di fatto inesistente nella realtà. A questo punto sente un angoscioso senso di smarrimento, in questa immensità indefinita. È il vento a riportarlo nella realtà, e a consentirgli di mettere a confronto il tempo con l’eternità, la voce del vento, con il silenzio dell’infinito. Si apre ora dinnanzi agli occhi dell’immaginazione del poeta l’immensità temporale: gli “sovvien” l’eternità, il passato, e il presente, vivo, pulsante nei rumori della vita. Ora il poeta non si sente più smarrito: egli si abbandona tutto all’infinito, si annulla con un brivido di piacere nel mare dell’infinito.
STRATEGIE FORMALI:

“Il mattino”, Caspar David Friedrich, 1821 c.a.
La tensione tra finito e infinito si può cogliere anche da un punto di vista formale.
Infatti, il poeta tende a rimarcare la chiusura di uno spazio finito, limitato, usando esclusivamente brevissime parole, mentre a partire dal verso terzo, progressivamente le parole si fanno più lunghe, si amplificano, grazie anche agli enjambements; da notare è anche l’oscillazione tra queste due “sfere”, evidenziata dall’uso dei dimostrativi “questo” e “quello”. In un primo momento il poeta, esprimendo maggiore vicinanza al finito, adopererà il primo per rimarcare il limite della realtà tangibile, ed il secondo per evidenziare un infinito distante e remoto; in seguito, il gioco si ribalterà, una volta che egli si sarà abbandonato a “questo mare” dell’infinito.
Anche i suoni sono disposti in maniera tale da conferire particolare rilevanza a parole che evocano il senso di infinito: si può far caso al ripetuto uso di “a”, dal suono aperto, in parole come tanta, interminati, profondissima, immensità.
In ultimo, lo stile adottato dal poeta è tutt’altro che impressionistico, ossia egli non traccia brevi e suggestivi tratti, bensì fornisce delle descrizioni che, nel lungo percorso “funambolico” tra finito ed infinito, egli vuole far assaporare piacevolmente ogni sensazione, lentamente.
Il rapporto dell’io con l’infinito
Se si presta attenzione alla disposizione dei periodi, si possono notare tre differenti approcci dell’io lirico nei confronti dell’infinito. Inizialmente, il poeta riesce a rendere efficacemente l’idea di essere sopraffatto dalla suggestione che l’infinito gli provoca, e infatti è presente un’inversione che colloca in primo piano gli interminati spazi, i sovrumani silenzi, la profondissima quïete, relegando in fondo al periodo il soggetto spaurito (io nel pensier mi fingo). Successivamente la struttura viene capovolta: l’io lirico, ridestato dal vento, riacquista padronanza di sé e passa ad un atteggiamento dinamico. Infine, nell’ultimo verso, dell’io lirico non rimane che un unico fonema (m’), avviluppato tra le due parole chiave naufragar e dolce: ora che il poeta si è abbandonato all’infinito, il suo io si annulla, con l’immersione in questo mare, nell’ovattata dimensione di una prospettiva senza soluzione di continuità.

David Friedrich, “Un viandante sopra un mare di nuvole”, 1818.
Il celebre dipinto raffigura un viandante, in primo piano, che, pur essendo la figura più grande di tutto il quadro, tende a scomparire rispetto all’immensità che ha dinnanzi a sé. La nebbia, che nasconde la vallata, rendendone visibili solo alcune vette, sembra addirittura accrescerne le dimensioni, propagarle all’infinito. In questo caso, proprio come la siepe del Leopardi, la nebbia è la “molla” che, celando in una coltre il paesaggio, lo amplifica sino a farlo diventare infinito. Ancora una volta è l’infinito a vincere sull’individuo, e su ogni cosa.
All’interno di questa lirica sono contenuti tutti i principali temi relativi all’infinito: la tensione dell’uomo all’infinito, il contrasto tra finito ed infinito ed il rapporto tra l’individuo e l’infinito.
Tali tematiche sono riscontrabili anche in altri ambiti, dalle religioni, alla ricerca scientifica. In questo caso, naturalmente, Leopardi propone la sua peculiare visione dell’infinito: esso è un’illusione, un silenzioso mare in cui è possibile immergersi tramite la propria immaginazione.
Fare esperienza di questo tipo di infinito non è sicuramente all’ordine del giorno, tuttavia probabilmente sarà accaduto ad ognuno, immersi in una riflessione, di essere rapiti dalla realtà, di ritrovarsi catapultati in una dimensione totalmente soggettiva, immaginaria, magari soltanto per pochi attimi.
L’infinito, per Leopardi, non coincide con la realtà, non si può trovare nel mondo concreto e tangibile.
È l’immaginazione ad essere infinita, e a trionfare sul limitato mondo reale.
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