L’infinito è conoscibile? La risposta di Kant

Il concetto di infinito rappresenta, per antonomasia, le colonne d’Ercole della conoscenza umana. Se è concepibile – di fatto ci è possibile pensarlo –, è conseguentemente possibile “conoscerlo”? In altre parole, è possibile che un giorno potremo comprovarne scientificamente l’esistenza fisica? Scopriamo qual è la risposta di Kant.

“Benché ogni nostra conoscenza cominci con l’esperienza, da ciò non segue che essa derivi interamente dall’esperienza”

Critica della ragion pura

Collocandosi tra Illuminismo e Romanticismo, la filosofia kantiana si configura come la più compiuta sintesi delle istanze di entrambi i movimenti. Il suo pensiero infatti, pur raccogliendo l’eredità della filosofia settecentesca, rivela una sensibilità tutta nuova, che sarà propria della speculazione idealistica, ovvero il corrispettivo filosofico del più vasto movimento romantico.

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LA FILOSOFIA DEL LIMITE

Spesso definita “filosofia del limite” o, ancor più efficacemente, “ermeneutica della finitudine” (N. Abbagnano, Le origini storiche dell’esistenzialismo) quella del filosofo prussiano è una filosofia criticista, che cioè si propone come un’interpretazione dell’esistenza volta a stabilire in ogni settore esistenziale:

  • le possibilità: le condizioni che ne permettono l’esistenza;
  • la validità: la fondatezza, la legittimità o meno che è propria di ognuno di essi;
  • i limiti: i confini della validità.

Tale operazione sistematica conferma l’etimologia del termine Criticismo, dal greco “kríno”, ovvero “discernere”, e dunque “ponderare”.  Come risultato di tale indagine, si delineano gli innegabili limiti di ciascun individuo, o più precisamente quelli della propria “ragion pura”, certamente non onnisciente. L’impossibilità per la conoscenza di trascendere i limiti dell’esperienza diviene base fondante della validità della conoscenza stessa.

IL FONDAMENTO DELLA CONOSCENZA

Andando ad effettuare una sintesi tra Razionalismo ed Empirismo e volendo ricercare un fondamento valido e fecondo del sapere scientifico, Kant conclude che esso va rintracciato nei “giudizi sintetici a priori“. Essi consistono dunque in formulazioni che connettono un predicato ad un soggetto (giudizio), ampliativo della conoscenza in quanto il predicato aggiunge qualcosa che non era già insito nel soggetto, in quanto se ne è fatta esperienza (sintetico), ma allo stesso tempo necessario (alla lettera: “nec-esse”, che non può essere diversamente) ed universale, in quanto non derivante dall’esperienza, dunque valido in ogni tempo e luogo (a priori). Perciò ci richiamiamo alla citazione di apertura: tutto parte dall’esperienza, ma non tutto deriva da essa.

Un esempio di giudizio sintetico a priori può essere, citando lo stesso pensatore: “Tutto ciò che accade ha una causa”.

Riassumendo: scienza= esperienza + principi sintetici a priori.

Di conseguenza, Kant, secondo l’attitudine criticista propria della sua speculazione, per giustificare la possibilità dei giudizi sintetici a priori avanza la seguente ipotesi gnoseologica: la conoscenza è sintesi di materia (molteplicità caotica delle impressioni sensibili registrate dall’esperienza) e forma (insieme delle facoltà innate attraverso le quali la mente umana filtra, ovvero ordina, cataloga, tali impressioni). Ecco perché si è parlato di Innatismo formale kantiano, da distinguere da quello tradizionale proprio dei Razionalisti, in quanto per il filosofo prussiano innate sono determinate funzionalità, predisposizioni conoscitive, non già contenuti.

La conoscenza è dunque il risultato di una costruzione tutta umana: la mente non si limita a registrare  pedissequamente un ordine predeterminato della realtà, viceversa è la realtà a modellarsi sulla base delle forme a priori proprie della nostra mente, come se si trattasse di lenti colorate, adottate per guardare il mondo circostante. Donde il significato ultimo dell’espressione “rivoluzione copernicana”, che il filosofo stesso si pregiò di aver operato in filosofia: così come è la Terra ad orbitare attorno al Sole, e non il contrario, è l’oggetto conosciuto (la natura) ad essere subordinato al soggetto conoscente (l’io “legislatore della natura”), e non il contrario.

LA FACOLTÀ DI AVANGUARDIA: LA RAGIONE

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Delle tre facoltà umane annoverate nella Critica del giudizio, la sensibilità, l’intelletto, e la ragione, quest’ultima non dà luogo ad una conoscenza certa. Infatti, se le prime due facoltà lavorano in sinergia (tramite un’ulteriore funzionalità mentale, il cosiddetto “schematismo trascendentale”) allo scopo di ottenere una conoscenza scientifica, indubitabile in quanto suffragata dall’esperienza, la ragione riflette un’inclinazione tutta umana: la propensione a valicare i propri limiti. E qual è il limite dell’intelletto? Il fenomenico, ossia il mondo fisicamente concepito, e di cui si ha un riscontro esperienziale. Detto altrimenti, la ragione ha la tendenza ad assurgere al metafisico (trascendendo dunque il fenomeno, il fisico: dopotutto Metafisica, etimologicamente “metà tà physiká”, significa “oltre gli enti fisici”), per proiettarsi nel “noumenico” – secondo lo stesso Kant il Noumeno è “oggetto di un’intuizione non sensibile”. Pertanto, la ragione non può condurre a nessuna verità comprovabile alla luce di un metodo scientifico, ma attraverso le sue forme pure, le idee, svolge un’insostituibile funzione regolativa. Cosa significa?

  1. Le idee, come quella di mondo, sono in grado di restituire una visione il più possibile ampia di tutti i singoli fenomeni analizzati da sensibilità e intelletto, rendendo così il sapere totalizzante, conferendogli un’unità sistematica. Pensiamo ad esempio a teorie non ancora dimostrate, ma avanzate da fisici teorici e cosmologi, alla “Teoria del tutto”: è precisamente questa la funzione attribuita da Kant alle idee, quella di “focus imaginarius” cui far convergere in linea teorica le molteplici esperienze;
  2. Le idee, non potendo valere come dogmi incontestati, valgono in un senso problematico, fungendo da monito e incentivando la ricerca incessante dell’uomo.

Significativamente, attribuendo un ruolo di considerevole importanza alla ragione, si può affermare che il filosofo di Königsberg stia valicando i limiti del Sensismo illuministico, per proiettarsi verso le istanze proprie dell’Idealismo.

È DUNQUE POSSIBILE “CONOSCERE” L’INFINITO?

L’infinità, secondo il rivoluzionario “soggetto-centrismo” inaugurato da Kant, sarebbe dunque non una proprietà degli oggetti in sé, ma soltanto propria del nostro “soggettivo” modo di rappresentarci gli oggetti conoscibili. Posto che “conoscenza” nella speculazione kantiana è sinonimo di “insieme di fondamenti suffragati dall’evidenza empirica”, l’infinito non è dunque conoscibile, in quanto risulta impossibile farne esperienza. Certamente è possibile assumere un’altra prospettiva, e forse questo racconto potrebbe farci ricredere. Tuttavia, secondo Kant, l’infinito, specialmente se fisico, appartiene al Noumeno. Attenzione, però: così come non possiamo dimostrare che il mondo sia infinito, allo stesso modo non possiamo dimostrare che sia finito, giacché è in effetti impossibile avere esperienza di limiti spaziali e temporali dell’universo, specialmente rifacendosi al grado di sviluppo della fisica contemporanea al pensatore. Il concetto di infinito è dunque da screditare? No, in quanto è espressione dell’aspirazione della ragione ad essere “soddisfatta in modo assoluto”, e inoltre rientra nella funzione regolativa svolta dalle idee (cfr. Prolegomeni, paragrafi 51, 52, 56).

Il Noumeno non è meramente il frutto di un inattendibile funzionamento della mente umana, ma svolge una funzione positiva, assolutamente “proficua”, andando a circoscrivere con precisione il limite sensibile della nostra conoscenza possibile così da enfatizzarlo: oltre quel confine non c’è conoscenza, ma solo pensiero. Non dimentichiamo che, richiamandoci alla concezione criticista kantiana, essa non equivale ad una forma di Scetticismo: il suo scopo è quello di “reperire nel limite della validità la validità del limite”, come sostiene Piero Chiodi.

L’infinito costituisce, in conclusione, un’irresistibile attrattiva per l’uomo, basti pensare al concetto di sublime matematico, espresso nella Critica del giudizio: non è possibile negare che dinnanzi ad uno spettacolo di smisurata grandezza, sproporzione, si provi un sentimento di repulsione-attrazione, dettato in realtà dalla sfida presentataci.

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Scena tratta dal film “Pride & Prejudice” del 2005, diretto da Joe Wright

Uno spettacolo come questo è inevitabilmente sublime. Ma, come sostiene Kant:

“La sublimità non risiede dunque in nessuna cosa della natura, ma soltanto nel nostro animo, nella misura in cui possiamo giungere alla coscienza della nostra superiorità rispetto alla natura che è in noi, e quindi anche alla natura a noi esterna”.

Critica del giudizio

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