Storia dell’infinito matematico-Prima parte: dagli albori alla crisi degli irrazionali

“La matematica è la scienza dell’infinito”. 

Hermann Weyl

Sin dall’antichità, il concetto di infinito è riuscito ad affascinare, ma anche turbare, in qualche modo, sicure e ben costruite concezioni, basate sul fatto che la ragione umana fosse in grado di comprendere, di concepire ogni forma di conoscenza, ogni entità. Per tale ragione l’infinito matematico non fu spesse volte accettato, o comunque fu catalogato in maniera pragmatica e messo in un canto in modo sbrigativo. Asserire che l’infinito fosse attuale, e non, al limite, potenziale, per alcuni avrebbe potuto suonare come assurdo, se non quasi empio: semplicemente impossibile. Nel corso poi dei secoli, grazie alle ricerche di numerosi studiosi, anche l’infinito ha trovato un posto nella matematica.

Ogni epoca ha adottato un differente “atteggiamento” nei confronti dell’infinito matematico. Vediamo di ripercorrere, in breve, le tappe più salienti della storia dell’infinito matematico.

GLI ALBORI DELLA CIVILTÀ ELLENICA

Ben noto è lo spirito ellenico per essere caratterizzato da una curiosità tale da spingere sempre a compiere quel passo in più sulla strada della conoscenza, da sfidare le leggi della natura. Già i poemi omerici, in particolare l’Odissea, ci narrano di un popolo costantemente attratto dall’ignoto. Pensiamo ad Odisseodetto polýtropos“, ossia, secondo una delle tante accezioni, “rivolto in molte direzioni”, “versatile”, a tal punto da dimostrare una condotta spregiudicata, pur di pervenire alla conoscenza. Altri elementi contenuti nei poemi omerici suggeriscono l’infinitamente grande, come ad esempio la moltitudine degli astri, o le profondità del Tartaro. Come si spiega allora il fatto che l’infinito fosse per lo più inviso a questa civiltà?

Ciò non si può motivare se non con il fatto che in un primo periodo il rapporto con l’infinito non era così critico come divenne in seguito.

“Non c’è un minimo tra le cose piccole né un massimo tra le grandi, ma sempre qualcosa di ancora più piccolo e qualcosa di ancora più grande”.    

Anassimandro

Il filosofo Anassimandro individuò il principio di tutte le cose proprio in quello che anassimandro.jpgchiamò “ápeiron“, ossia una sorta di materia primordiale in cui in principio ogni cosa conviveva, priva di forma ed indistinta: nella sua concezione ápeiron è sinonimo di “indeterminato“, interpretabile sia in senso spaziale, sia in senso quantitativo. In seguito si verificava la “separazione dei contrari“, ossia quel processo, dovuto ad una colpa non ben determinata, insita in tutte le cose, che vedeva la separazione di tutti gli elementi opposti, come la luce e le tenebre, il giorno e la notte, che tendevano a sopraffarsi a vicenda, provocando ingiustizie. Tale stato di cose, imperfetto, sarebbe stato espiato con la distruzione di ogni cosa, che sarebbe ritornata all’ápeiron; per cui, secondo Anassimandro la perfezione coincideva con questa materia indeterminata ed infinita, mentre l’imperfezione con tutte le cose finite. Ad ogni modo, il processo di separazione dei contrari e di “ritorno all’infinito” è un processo ciclico, dunque infinito. Inoltre, visto questo eterno movimento e mutamento, non si può escludere che Anassimandro sostenesse l’infinità dei mondi, oltre che nel succedersi nel tempo, anche allo stesso tempo, quindi un infinito non solo nel tempo, ma perfino nello spazio.

Tuttavia, maggiormente accresceva l’inclinazione razionale dei Greci, meno diveniva accettabile il concetto di infinito…

I PITAGORICI

La civiltà, il gusto greco si indirizzava sempre più verso la ricerca dell’armonia, dell’equilibrio delle proporzioni, e della perfezione. In generale, la perfezione, secondo i Greci, era raggiungibile, o quantomeno avvicinabile unicamente attraverso l’uso della ragione (o gos). Ora, tutto ciò che non potesse essere compreso dalla ragione, veniva semplicemente considerato imperfetto.

Partendo da questa presupposto, possiamo comprendere come accettare una simile entità, sfuggente per la mente, risultava sempre più improponibile alla mentalità di questo popolo. La stessa parola con la quale essi indicavano l’infinito, ossia “ápeiron”, è una parola non descrittiva, priva di “sapore”. Infatti, il termine è composto “péirar”, “fine”, “limite”, preceduto dal prefisso “a-“, che sta per “privo di”. Dunque, è come se con tale termine i Greci intendessero non definire questa entità per quello che è, bensì per quello che non è. L’infinito era ad essi inviso almeno quanto lo zero, che rendeva “il nulla” qualcosa: una cosa inesistente diveniva esistente. L’infinito sembrava inevitabilmente essere connesso proprio al concetto di “nulla”.

Risultati immagini per scuola pitagorica

“Pitagorici celebrano il sorgere del sole”, Fëdor Bronnikov, 1869

In particolare, i Pitagorici, ai quali si deve una delle più grandi conquiste dell’umanità, ovvero la fondazione della matematica come scienza, lasciarono un’impronta decisiva nella successiva concezione d’infinito. L’importanza del loro caposcuola, Pitagora, in ambito matematico, secondo alcuni avrebbe indotto gli studiosi ad associare la sua iniziale a un numero davvero particolare: π.

Essi effettuarono una divisione dualistica del numero, considerato come un entità materica, in pari e dispari (è da questa opposizione che derivano tutte le altre presenti nel mondo). Il dispari è, nella sua stessa essenza, un’entità limitata, terminata, compiuta. Il pari invece è un’entità illimitata.

N DISPARI

n pari

Come si può notare dalle figure, a differenza di quanto accade per i numeri dispari, nei numeri pari non vi è alcun “punto” ad ostacolare le frecce, né vi è alcun termine che circoscriva e limiti lo spazio interno.

Per cui i numeri pari erano la rappresentazione fondamentale di tutto ciò che è difettoso. Lo stesso universo era da essi visto come il trionfo del finito sull’infinito, e parallelamente dell’ordine (non a caso l’universo veniva definito kósmos, che voleva anche dire “ordine”) sul disordine.

LA CRISI

Secondo la concezione pitagorica, l’intera vita del cosmo è retta da leggi esprimibili mediante rapporti numerici, ma proprio questa convinzione comportò la stessa crisi del pensiero pitagorico.

Come è noto, a Pitagora si attribuisce il celebre teorema per cui, in un triangolo rettangolo, il quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati costruiti sui cateti.

Immagine correlata

Ecco una dimostrazione originale ed immediata del Teorema di Pitagora, realizzata da A. De Lella.

Sulla base di tale teorema, i Pitagorici si trovarono di fronte alla sfida di determinare il rapporto tra la diagonale e il lato di un quadrato. Inevitabilmente, essi scoprirono che esso non corrispondeva né a una frazione tra numeri interi, né tantomeno ad un numero intero, ma a √2! Pur avendo lì, sotto gli occhi il segmento in questione, il suo valore, corrispondente a √2, non poteva essere calcolato se non con approssimazioni via via maggiori, tendenti all’infinito.

La scoperta di grandezze tra loro incommensurabili, ovvero il lato e la diagonale di un quadrato, quasi come fossero incomunicabili fra loro, decretò un vero e proprio scandalo, a cui seguì la fine della concezione pitagorica del numero, ma aprì anche le porte alla speculazione in ambito filosofico e matematico a proposito dell’infinito, e così, la divisibilità all’infinito, rappresentata da tutte le cifre che in √2 vengono dopo la virgola, divenne uno dei più grandi problemi per il pensiero greco (fu poi il matematico Dedekind ad offrire una soluzione a questa questione).

Vediamo cosa accadde in seguito nella storia del pensiero greco matematico: “STORIA DELL’INFINITO MATEMATICO-Seconda parte: da Zenone ad Aristotele”.

Follow Ápeiron on Instagram:

Lascia un commento