Che felicità nel blu. Non ho mai saputo quanto il blu potesse essere blu.
Vladimir Nabokov
Immaginate per un attimo di indossare i panni di un pittore di qualche secolo fa. Se vi occorre del giallo, potete ricavarlo dalla terra d’ocra, dalla curcuma, dallo zafferano, ad esempio. Ancora, le tinte del rosso sono offerte, tra le altre cose, dal cinabro, o da molluschi, nel caso della porpora. E i pigmenti blu? Il blu che ci sembra di trovare negli iridi di alcune persone, e nelle profondità del cielo: nient’altro che un’illusione, dovuta a riflessi di luce. Ecco, la natura offre con molta parsimonia pigmenti di questo colore. Lo troviamo nel lapislazzuli, che proviene soprattutto dalle montagne dell’Afghanistan. Ma non si lascia raggiungere facilmente, non prima di aver raggiunto quattromila metri di altezza, nelle miniere del Badakshan. C’è poi l’azzurrite, che però non sarebbe stata presente nell’ipnotico cielo di Giotto senza le finanze di Enrico degli Scrovegni. Insomma, il blu nasce come colore raro. Ha il fascino dell’inattingibile. Anche per questo, nella storia dell’arte viene riservato ai soggetti sacri. Nelle profondità di questo colore molti artisti hanno riposto intuizioni, inquietudini e moti d’animo più intimi: pensate a Kandinskij, o a Miró. In fondo, il nostro istinto ci suggerisce che dove c’è blu c’è profondità. Ma il blu ha anche tante sfumature: blu oltremare, ceruleo, turchese, indaco… Per questo, inizieremo il nostro viaggio nella notte per terminarlo con le prime luci, attraverso luoghi e tempi diversi.
Notte. Åsgårdstrand, Norvegia
Questa tela di Edvard Munch ci cala nell’oscurità di una notte apparentemente serena. È estate. Possiamo guardare attraverso gli occhi del pittore la costa della piccola località balneare di Åsgårdstrand, dove soggiorna. Intravediamo appena la linea che separa il cielo dal mare, che sono indistinguibili: hanno la stessa pastosità, le stesse sfumature di blu, si specchiano l’uno nell’altro. Per questo, forse, abbiamo l’impressione di poter cogliere una profondità insondabile nel notturno di Munch. Ma c’è dell’altro: un elemento di lettura tutto personale, che Munch ci restituisce. La tela sembra essere graffiata da tante, impercettibili pennellate, che imprimono un movimento confuso nel cielo, agitano i riflessi sull’acqua, e rendono ancora più cupa la consistenza della riva. Questa, in realtà, è una notte carica di ferite. Sembra quasi di avvertirlo, in lontananza, quell'”urlo infinito di ogni cosa” di cui parla Munch. L’indecifrabile inquietudine che ci appartiene, l’infinito che può sconvolgere tutto, in un solo attimo, anche un paesaggio sereno. Nello stesso anno in cui dipinge l’urlo, il 1893, Munch ci restituisce una rappresentazione visionaria della notte, e dell’infinità che inghiotte ogni cosa.
TEMPORALE ALL’ORIZZONTE. Auvers-sur-Oise, Francia

Il 10 luglio 1890, Van Gogh scrive al fratello Theo:
Ritornato qui mi sono sentito molto triste, e ho continuato a sentire pesare su di me la tempesta che vi minaccia. Che farci – vedete, di solito cerco di essere di buon umore, ma anche la mia vita è attaccata a un filo, anche il mio passo vacilla. […] Ecco, ritornato qui mi sono rimesso al lavoro – però il pennello mi cadeva quasi di mano – sapendo bene ciò che volevo ho ancora dipinto ancora tre grandi quadri. Sono delle immense distese di grano sotto cieli nuvolosi e non mi sento assolutamente imbarazzato nel tentare di esprimere tristezza, e un’estrema solitudine.
Il blu era stato sinonimo di profondità, durante tutta la parabola creativa di Van Gogh. Se accostato alle tinte del giallo, ecco che quella profondità prendeva a pulsare di una vitalità incontenibile, ampliando le prospettive. Lo si vede bene in Seminatore al tramonto. D’altronde, l’uomo attraversa il campo spargendo sementi, promessa di nuova vita. A distanza di un anno, Campo di grano con nuvole temporalesche (1889) reca il peso di una situazione che sta cambiando. Il suo cielo, che ha una consistenza pastosa e scorrevole, non è certo poco profondo. Anzi, lo è al punto che il campo di grano, pur suggerendo la sua vastità, sembra gravato dal raggrumarsi delle pennellate in tormentati nodi di cielo. Il verde, portatore di serenità, è quasi compresso dal blu. Il giallo non è assente dalla tela, affiora qua e là a ravvivare le coltivazioni di grano, ma è smorzato, esangue. Tutto ciò che si intravede è un flebile spiraglio di speranza. Si avverte tutta la tensione di un temporale incombente, che si abbatterà nella vita e nell’arte di Van Gogh: Campo di grano con volo di corvi risale al 1890, anno della sua morte.
Il rocchetto sul tappeto. Skagen, Danimarca

L’infinito è una stanza senza pavimento, pareti, o soffitto.
Anonimo
L’esperienza dell’infinito si annida anche nelle piccole cose, nel groviglio di fili della nostra vita quotidiana, non solo nella natura. C’è una bambina che ci dà le spalle, intenta al suo lavoro. È la figlia della pittrice. Sembra quasi di sentirla sferruzzare, forse questo è l’unico rumore percepibile. Tutto il resto sembra tacere. È il blu a colmare la stanza di un silenzio rasserenante. Non avete la stessa impressione? La luce fa il suo gioco, confonde i contorni, imprime il suo passaggio sulla parete, e sembra riversare il blu in tutta la stanza: è nel vestito della bambina, nel rivestimento dei mobili, nelle le pareti stesse, perfino in alcune striature del tappeto. A un anno di distanza dal tormentato Campo di grano con volo di corvi di Van Gogh, anche la Ancher accosta il giallo al blu, ma per restituire un’immagine di rara serenità, di intimità domestica. Giallo è anche il filo che la bambina lavora: anche lei è assorta, come la madre, in un’attività creativa. Come in una sorta di mise en abyme, la madre che crea ritrae la figlia che crea. Del resto, mentre lavora, il rocchetto non è posato compostamente sul suo grembo, ma è andato lontano, a lambire il blu, e tutte le infinite possibilità che schiude.
Pigmento diluito. Italia-Francia
Pigmenti naturali su tela o carta, impastati con del legante di produzione svizzera. Così sono state realizzate queste tele di Emilio d’Elia, pittore italiano, e parigino d’adozione, che ha avuto la pazienza di raccontarmi la grammatica della sua arte. I linguaggi espressivi cambiano rapidamente, è vero, ma la relazione degli artisti con il blu non mai ha perso di intensità: D’Elia fa di questo colore il protagonista senza tempo delle sue opere. E, come nei dipinti che abbiamo appena visto, il blu è spesso illuminato dal giallo. Il figurativismo non scompare, ma prevale il sentire cromatico che solo il pigmento naturale è in grado di restituire. Tutto questo, con tre sole tonalità di blu: blu oltremare scuro, blu oltremare chiaro e blu di Prussia. Il colore non è però steso in modo materico; i colori vengono spesso diluiti dall’artista fino a ottenere un effetto acquerellato. La profondità abissale che il blu schiude non fa più paura, perché è incredibilmente leggera. Ora sappiamo che l’alba è vicina. E, attraverso gli occhi dell’artista, scopriamo qualcosa che difficilmente avremmo potuto immaginare: l’infinito può essere intimo e toccante.
Oltre l’opera dell’uomo. Nasso, Grecia



A volte, sembra che l’infinito si insinui nelle opere dell’uomo contro la sua volontà. Ancora oggi, dopo millenni, questo portale si presenta a quanti sbarcano sull’isola di Nasso, imponente e al tempo stesso leggero. Sembrerebbe quasi un’installazione contemporanea, come quelle di James Turrell, o una versione architettonica di Rooms by the sea di Hopper. Invece, è tutto quello che resta dell’ambizioso progetto del tiranno di Nasso Ligdami, che intendeva edificare un tempio periptero in marmo locale. La costruzione del tempio fu però interrotta a causa della deposizione di Ligdami, nel 524 a.C., e nel corso dei secoli andò sempre più disfacendosi. Sembrerebbe, però, che la costruzione non abbia perso di impatto: nei suoi resti, l’opposizione tra interno ed esterno si risolve immediatamente nell’azzurro limpido e senza fondo del cielo di Nasso, che non si lascia incorniciare dal portale, ma si espande in ogni direzione. La natura completa un’opera incompiuta dell’uomo.
Alba. San Antonio, Stati Uniti

Sul far del giorno, il blu non abbandona la tela. Si trasforma. È in un campo di bluebonnets (un fiore selvatico, il nostro lupino azzurro), qui e lì nel fogliame degli alberi, impregna l’orizzonte, ancora una volta fuso con le tinte del giallo. Julian Onderdonk lascia la sua terra natale, il Texas, a diciannove anni, per Long Island, dove frequenta una scuola d’arte; quindi il trasferimento a New York. Ma poi, nel 1909, fa ritorno a San Antonio, e ritrae la sua natura a più riprese. Sembra non poterne fare a meno, soprattutto di questi campi di blu, che calamitano la sua attenzione: ne realizza molte versioni, spesso proprio in questo momento delicato, liminale: non è più notte, non è ancora giorno, e il blu cambia volto. L’artista traccia una strada, quasi a suggerirci di passare attraverso. Attraverso i campi, attraverso il blu, verso il nuovo giorno. Fino al prossimo tramonto.
Ringrazio molto Emilio d’Elia per avermi inviato una selezione delle sue opere e per avermene parlato. Sono davvero felice di poterle ospitare su Ápeiron: questo viaggio attraverso il blu non sarebbe stato lo stesso senza il loro apporto.










